Gioia tra Unità d’Italia e brigantaggio. Il sergente Romano
Al termine della " Impresa dei Mille " il generale Garibaldi, con suo decreto, convoca il popolo meridionale per il giorno 21 ottobre 1860, perché accolga o respinga il seguente plebiscito: " Il Popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e i suoi legittimi discendenti? " Sono chiamati a votare tutti i […]
Al termine della " Impresa dei Mille " il generale Garibaldi, con suo decreto, convoca il popolo meridionale per il giorno 21 ottobre 1860, perché accolga o respinga il seguente plebiscito: " Il Popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e i suoi legittimi discendenti? "
Sono chiamati a votare tutti i cittadini di sesso maschile che avevano compiuto i 21 anni.
Gioia nel 1860 contava circa 17.000 abitanti e il referendum, come si evince dalla deliberazione decurionale del 21 ottobre 1860, si tiene nel pubblico spiazzo antistante la Chiesa di San Francesco ( che da quell'episodio prende il nome di Piazza del Plebiscito o, come oggi più comunemente si tramanda, Piazza Plebiscito ), dalle ore 13 alle ore 24 d'Italia ( ossia dall'alba al tramonto ).
Per l'occasione vengono preparati 4.287 bollettini ( schede ) per il sì ed altrettanti per il no ( tanti erano i gioiesi aventi diritto al voto ).
L'annessione di Gioia al Regno d'Italia viene salutata nel nostro Paese da calorose acclamazioni, specie nei confronti del generale Garibaldi, e con feste patriottiche.
Se da una parte i liberali osannano a Garibaldi, considerandolo un Padre della Patria, dall'altra un manipolo di nostalgici del governo borbonico organizza un'opposizione al nuovo Regno, che è passata alla storia con il nome di Brigantaggio.
L'esponente locale più significativo del ritorno dei Borboni nelle nostre terre è stato Pasquale Domenico Romano, più noto come il Sergente di Gioia o, più comunemente, il Sergente Romano.
Egli nasce a Gioia il 24 settembre 1833 ed è passato alla storia per aver tentato di realizzare il sogno di pochi nostalgici: quello della restaurazione borbonica.
Figlio di un pastore e di una contadina acquavivese, a 18 anni si arruola nell'esercito borbonico, nel quale presta servizio per circa 10 anni.
In quegli anni impara a leggere e a scrivere e, per la sua condotta esemplare, viene nominato primo sergente e ha l'onore di essere l'alfiere della prima Compagnia del 5° Reggimento di linea.
A seguito del plebiscito del 21 ottobre 1860 e della conseguente unificazione dell'Italia l'esercito borbonico viene sciolto e nel gennaio 1861 il Romano è costretto a far ritorno a Gioia.
Deluso dal nuovo governo e riuscendogli difficile trovare una nuova occupazione, comincia a rimpiangere la dominazione borbonica e la promettente carriera militare, che, forzatamente e repentinamente, aveva dovuto interrompere. Accetta quindi la designazione di Comandante generale delle squadre filoborboniche di Gioia.
Il Brigantaggio è quindi la reazione di persone che, come lui, erano deluse dalle aspettative del nuovo Stato Italiano all'indomani dell'unificazione, le quali perciò manifestavano il loro malcontento per le mancate promesse, per le fallite speranze, per la mancanza di lavoro, per il rincaro della vita, per la confisca delle rendite ecclesiastiche, per l'introduzione della coscrizione obbligatoria, per l'inasprimento fiscale attraverso nuove tasse, che gravavano pesantemente sui ceti più deboli.
Nelle file dei briganti confluivano, quindi, reazionari, fanatici garibaldini delusi, ex soldati dell'esercito borbonico, disertori e renitenti alla leva, delinquenti evasi dalle galere che temevano la fucilazione, avventurieri in cerca di novità o di fortuna.
Tali uomini non si consideravano briganti; infatti il piemontese Carlo Gastaldi, che faceva parte della banda Romano, così scrive ai suoi genitori: " I miei commilitoni erano appartenenti a Francesco II e non già briganti come erano spacciati ".
L'attività di brigante del sergente Romano ricalca quella di altri " colleghi briganti ", tra cui il famoso Fra' Diavolo. Come quest'ultimo, il Romano prende un nome di battaglia: Enrico La Morte e manifesta una mobilità vertiginosa ed esasperata, nonché una maestria nel tendere imboscate,
Per due anni ( dal 1861 al 1863 ) lo troviamo impegnato non solo a Gioia, ma anche nei paesi limitrofi.
L'episodio rivoluzionario più importante è sicuramente quello avvenuto il 28 luglio 1861.
Lo storico A. Lucarelli, riassumendo quanto rimane nei Processi Penali di Corte di Assise presso l'Archivio di Stato di Bari e nell'Archivio del Comune di Gioia, così ricorda quella tragica giornata: " Un altro sergente borbonico, Pasquale Domenico Romano, non privo d'ingegno e di sagacia, esasperato dalle contumelie dei concittadini liberali, raccoglie nei boschi una schiera di ribelli, muove, ardente di vendetta, sulla città natia e, con abile manovra, riesce ad impadronirsi del sobborgo di S. Vito, dov'è accolto da tre mila popolani inneggianti alla restaurazione con bandiere spiegate. Uomini e donne, giovinetti e fanciulle del popolo, munite di falci, scuri, zappe, spiedi, forconi ed archibugi, fronteggiano l'armata borghesia, quasi accampata nell'opposto Borgo Palmieri e nel centro dell'abitato; avanzano intrepidi a passo di ginnastica sotto il fuoco dei fucili e, con sommo ardimento, s'impossessano di un cannone, maneggiato dagli artiglieri della Guardia Nazionale. Trascorrono, poscia, ai più efferati eccessi: ammazzano, incendiano, distruggono; si cibano, orribile a dirsi, di pane inzuppato nel sangue delle vittime e restan lì, assoluti padroni del campo, dalle dieci antimeridiane fino alle quattro del pomeriggio. Frattanto da Bari, da Altamura, da Acquaviva e da tutti i comuni limitrofi accorrono, chiamati d'urgenza, plotoni di carabinieri, compagnie dell'esercito e drappelli di guardie nazionali che procedono, senza indugio, alla espugnazione del popoloso quartiere. I contadini resistono con tenacia eroica, ma anche qui, vinti dalla superiorità dei nostri soldati e minacciati di accerchiamento, scappan via, riprendendo i sentieri della foresta. Sedata la ribellione, il sindaco della città, gli ufficiali della truppa e i comandanti della guardia nazionale, costituiti in consiglio di guerra, compiono sommari giudizi ed emettono estreme condanne, che vengono subito eseguite nei pressi del camposanto civico. Orrenda caneficina! ".
In quella giornata muoiono non meno di 150 persone e lo stesso Romano, ferito alla coscia e a un braccio, riesce a sfuggire alla cattura, a nascondersi in una grotta sulla strada per Acquaviva per poi darsi a riorganizzare la banda.
Il Comune di Gioia in tale circostanza sopporta spese per 1356,64 ducati per le truppe e per trasporto di morti al camposanto.
Una più dettagliata cronaca di quella giornata ci viene proposta dal concittadino Giovanni Carano Donvito nella Storia di Gioia Dal Colle.
Per fronteggiare l'attacco dei briganti vengono utilizzati due cannoni che erano stati appositamente acquistati dalla Guardia Nazionale e che successivamente verranno sistemati alla base del Monumento ai caduti, in piazza Cesare Battisti.
Nel corso del 1862 per contrastare il fenomeno del brigantaggio si aumenta a 450 il numero dei militi della Guardia Nazionale, di cui metà a cavalli e 120 armati di fucili, ai quali dal 1 dicembre si unisce una guarnigione del 1° squadrone dei Cavalleggeri di Saluzzo, giunto appositamente a Gioia. Ed è proprio quest'ultima, comandata dal capitano Bolasio, che alle due pomeridiane del 5 gennaio 1863 sopraggiunge nella zona sud-occidentale di Gioia, in contrada Vallata, dove il Romano bivaccava con i suoi e lo accerchia, sostenuta da un drappello della Guardia Nazionale e dei Reali Carabinieri.
Il sergente Romano chiede al sergente Michele Cantù, che capeggiava i cavalleggeri, di essere fucilato ( finitemi da soldato ). Nel battibecco tra sergenti il Cantù risponde: Muori da brigante. Poi lo uccide a sciabolate. Con lui muoiono oltre 20 suoi gregari.
Ironia della sorte, muore nello stesso luogo da cui era partito per la disperata impresa del 28 luglio 1861!
Il suo atto di morte riporta: " Cinque gennaio 1863, ore 21, morto, ucciso dalla forza in questa campagna Pasquale Domenico Romano, sergente borbonico, figlio di Giuseppe, pecoraro, e di Anna Concetta Lorusso, di anni 29, domiciliato alla Strada Canale.
Il suo corpo, legato al dorso di un asino, viene portato un giro per il paese ed è oggetto di insulti da parte dei suoi concittadini. Nudo, rimane esposto al pubblico disprezzo in Piazza Castello, per due giorni e, subito dopo, di nascosto, viene sepolto.
Il Lucarelli ebbe a definire il Romano " anziché un abietto e volgare malandrino, un visionario, un fanatico, un disgraziato ".
L'on. Massari, parlando ala Camera dei Deputati nel febbraio del 1863 disse: " Il Sergente Romano non era così abietto come gli altri briganti; aveva coraggio e difatti morì combattendo; nella sua indole era uno strano miscuglio di bieco fanatismo e di rozza pietà; né la consuetudine del delitto gli aveva soffocato ogni senso di onestà; un qualsiasi spiraglio di luce rischiarava talvolta l'oscurità della sua coscienza e componeva l'animo suo alla invincibile malinconia del rimorso ".
A conferma di questo aspetto positivo che di tanto in tanto traspariva nel carattere del sergente Romano, va ricordata la vibrata disapprovazione nei confronti di quattro suoi amici briganti, che la sera del 24 luglio 1862 uccidono barbaramente il caporale della Guardia Nazionale Teodoro Prisciantelli.
A quei tragici episodi del 28 luglio 1861 il Comune ha voluto intitolare la strada cittadina che è stata teatro di quella dolorosa guerra civile.
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30 Gennaio 2009