1 luglio 1920: l’eccidio di Marzagaglia

I tentativi di esportare nel Sud dell’Italia un tipo di industrializzazione pesante, sono stati una scelta che si è dimostrata perdente (come dimostrato dagli insediamenti di Bagnoli e di Taranto). Il Mezzogiono, invece, andrebbe valorizzato maggiormente nella sua vocazione agricola e nella trasformazione dei prodotti dell’agricoltura. Nel 1915 gli  uomini del Sud, in età di […]

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I tentativi di esportare nel Sud dell’Italia un tipo di industrializzazione pesante, sono stati una scelta che si è dimostrata perdente (come dimostrato dagli insediamenti di Bagnoli e di Taranto). Il Mezzogiono, invece, andrebbe valorizzato maggiormente nella sua vocazione agricola e nella trasformazione dei prodotti dell’agricoltura.

Nel 1915 gli  uomini del Sud, in età di leva, erano stati chiamati alle armi per combattere contro l’impero  austro-ungarico  con  la speranza, anzi la promessa  che,  al ritorno vittorioso da quel conflitto avrebbero potuto godere dell’assegnazione di terre da coltivare.

Lo stesso Primo Ministro Antonio Salandra, per animare i soldati a combattere, dal 1915 aveva dichiarato alla Camera che alla fine della guerra ogni contadino, eroe del fronte, avrebbe avuto la sua parte di terra come ricompensa offerta dalla Patria ai suoi valorosi figli.

Grande fu la delusione all’indomani del 4 novembre del 1918: quei superstiti, scampate vittime del Primo Grande Conflitto Mondiale, pur essendo riusciti a portare sana la pelle  nel loro Comune, furono vittime di una cocente realtà, quella di aver dato vite dei loro cari alla Patria e di ritrovarsi in una situazione di povertà e di delusione per ricompense negate.

Il Governo, infatti, oltre ad essere in preda ad una profonda crisi economica, prese tempo, poiché non riuscì a trovare una mediazione tra le richieste dei

contadini che reclamavano la terra e quelle degli agrari che protestavano contro quei parlamentari che avevano promesso con tanta leggerezza le proprietà altrui. Gli agrari sostenevano che le terre andavano date ai contadini solo all’apice dello sfacelo nazionale, cioè quando si perde, non quando si vince la guerra.

Le prime lotte si sviluppano nel 1919 con un duplice obiettivo: rafforzamento  del controllo sindacale, che avrebbe garantito un certo numero di giornate lavorative presso aziende agrarie, e concessione ai braccianti di terre, con la diffusione di un sistema di piccole proprietà e ridimensionamento del latifondo.

Il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti (1919-20) adottò alcuni decreti per tentare di risolvere il problema agrario. Quello che porta il nome di Decreto Visocchi, emanato a settembre del 1919 prevedeva l’occupazione forzosa per un periodo di quattro anni, da parte di Cooperative di ex combattenti o Enti, di terre incolte o insufficientemente coltivate. Tale decreto, che mirava soprattutto ad eliminare le cause dei gravi e deplorevoli perturbamenti dell’ordine pubblico che si manifestavano con le violente occupazioni di terre da parte delle masse agricole  e a garantire la migliore utilizzazione della terra, a causa di difficoltà burocratiche non sortì gli effetti desiderati.

Era naturale, quindi,  che accadesse l’inevitabile.

La situazione postbellica di Gioia non si discosta da quella degli altri Comuni del Sud, anzi si acuisce per la presenza  del latifondo agrario molto sviluppato. A ciò è da aggiungere gli effetti della fillossera, della scarsità di pioggia e dei  miseri raccolti, del diffondersi del vaiolo.

Durante i cinque anni di  guerra moltissimi terreni erano stati abbandonati o scarsamente coltivati per mancanza di lavoratori agricoli, chiamati al fronte. Alcune terre perduravano nel loro stato di abbandono e per molte altre i proprietari dichiaravano di coltivarle direttamente.

Per contrastare la disoccupazione il Comune già a metà del 1919 aveva approvato numerosi provvedimenti: la vendita di pascoli comunali nelle contrade Grottacaprara, Profilo, Montursi, Parata, Marzagaglia e 13 quote abbandonate alla Murgia Fragennaro. Essendo stato riconsegnato dal Comando Militare del Presidio l’edificio della scuola elementare,  utilizzato come Ospedale Militare di Riserva, che aveva 32 aule con 53 alunni ciascuna,  oltre il limite consentito dalla legge, si avverte l’esigenza di costruire un altro edificio a nord del paese, un complesso di 20 aule destinato ad incremento fino a 27, e quindi  è approvato il progetto stilato dall’ing. Giovanni Milano, insieme all’altro suo progetto per la costruzione dell’Asilo d’Infanzia, la pavimentazione con pietrini di Piazza Plebiscito, progetto dell’ing. Raffaele De Bernardis. Viene approvato il progetto per  la costruzione della fognatura generale, opera degli ingegneri Giuseppe Leone e Giovanni Milano, viene proposta la pavimentazione in asfalto delle vie Principe Amedeo e di corso Garibaldi con sottostante fognatura, la costruzione di nuovi loculi al Cimitero.

Dai primi mesi del 1920 il Comune, sempre per contrastare la disoccupazione, delibera una serie di lavori pubblici: la piantumazione  del giardino pubblico della stazione ferroviaria, del monumento di Garibaldi e di quello dei Martiri, pavimentazione di numerose strade, nuove arcate e  loculi al Cimitero, l’istituzione di una Scuola di Arti Industriali, in sostituzione di quella di Disegno, con insegnamento dei seguenti mestieri: ebanisti e falegnami, fabbro ferrai e meccanici, orefici, carpentieri, gioiellieri, decoratori, lavori femminili.

Il 17 marzo 1920 abbiamo un assaggio di quello che si sarebbe manifestato a luglio. Si verificano tumulti popolari per la disoccupazione e il razionamento della farina,  la proclamazione dello sciopero generale e un tentativo di assalto al Circolo dei Signori in Piazza Plebiscito da parte di circa 4000 dimostranti.

Nel 1920 i poveri schedati dal Municipio e che godevano di provvidenze comunali ammontavano a 2151.

Sempre nel mese di marzo è presente a Gioia una Cooperativa Agricola con lo scopo di bonificare e coltivare alcune terre incolte, tra cui 10 ettari a Murgia Fragennaro e 5 ettari nella zona Marchetti, sulla via per Acquaviva, di proprietà di Paolo Cassano.

Nel mese di aprile un accordo tra il Consorzio dei Proprietari Agricoli e la Camera del Lavoro, per l’impiego della manodopera disoccupata,  prevedeva che i contadini avrebbero censito i terreni incolti e i proprietari dal loro canto avrebbero fatto pervenire giornalmente alla Camera del Lavoro le richieste di lavoratori da occupare in agricoltura.

A fronte di numerosi scioperi gli agrari ricomposero l’Associazione dei proprietari, che a giugno decise di opporsi con le armi ad ogni occupazione di terre da parte dei contadini, che sin da maggio volevano mettere a coltura le terre utilizzate come Campo d’aviazione e quelle circostanti, rimaste incolte.

A giugno si costituisce a Gioia la Commissione di Avviamento al Lavoro con il compito di censire le terre incolte e l’attribuzione della mano d’opera.

Il clima tra proprietari terrieri e braccianti si faceva teso, come testimoniato dall’episodio verificatosi il 25 giugno presso le masserie dei signori Cardetta e Tateo, dalle quali gli operai erano stati cacciati a colpi di fucile, poiché i proprietari terrieri avevano deciso di opporsi agli accordi precedentemente sottoscritti;  ciò portò a rivedere l’accordo tra le parti e fu istituito l’Ufficio di Collocamento, che avrebbe affiancato la Commissione di Avviamento al Lavoro.

Qualche giorno dopo alcuni agrari, proprietari di terreni nel territorio di Castellaneta, non solo si rifiutarono di pagare la giornata lavorativa ai braccianti, ma risposero con le armi alle loro insistenti richieste si saldo di quanto dovuto. Era il prologo degli eventi del successivo primo luglio.

Nel pomeriggio di mercoledì 30 giugno 1920, una ventina di braccianti, regolarmente assegnati al lavoro dalla Commissione paritetica e dalla Commissione comunale  dell’Ufficio di Collocamento, si recano presso la Masseria di Girardi Natale, in contrada Marzagaglia, a circa 7 Km. da Gioia, per richiedere il giusto compenso alla fine della giornata lavorativa. Al rifiuto di pagare da parte del Girardi, i braccianti e i contadini controbattono che il giorno seguente sarebbero tornati a lavorare ancora più numerosi e che avrebbero preteso il relativo salario.

Il 1 luglio 1920 un centinaio circa di braccianti si recano alla masseria  Girardi e, dopo essersi provvisti degli strumenti agricoli e delle mastelle d’acqua  indispensabili per il lavoro si dirigono verso i campi. Alle 10 dello stesso giorno i proprietari  si ritrovano presso la Masseria Tateo, situata nella stessa contrada di Marzagaglia, e  decidono di respingere le richieste dei contadini anche con la violenza.

Dalla Masseria Tateo il primo gruppo dei proprietari, con fucili e munizioni, si dirige verso la masseria di Girardi Natale, chiamando a raccolta altri proprietari armati, circa una quarantina, provenienti dalle Masserie Boscia, Cardetta e Girardi Francesco.

Sul tetto della Masseria di Girardi  Natale erano state preparate otto feritoie, sovrapponendo delle pietre in modo da creare un nascondiglio per coloro che era appostati. Da un altro lato erano state sistemate altre quattro feritoie. Alcuni proprietaro presero posto presso una di quelle feritoie; gli altri si appostarono alle finestre ed alcuni si nascosero dietro un muricciolo di cinta che li nascondeva e proteggeva, come se si trattasse di una trincea. Un altro gruppo entrò nella masseria e si nascose vicino alla stalla dove erano ricoverati i cavalli. Non prevedendo i tempi di permanenza in quelle postazioni ogni proprietario aveva con sé del cibo,  un fiasco di vino, il fucile e le munizioni. Alle 14  circa i contadini, avendo terminato il lavoro, ritornarono alla masseria. Tutti si fermarono dietro il muretto di recinzione della masseria, ad una trentina di metri circa dal fabbricato, mentre l’andiere ( cioè il caposquadra) Nettis  avanzò verso la casa del Girardi. La masseria presentava l’ingresso e le persiane chiuse. Nettis, allora, alzando la voce,  disse che i contadini avevano terminato la giornata lavorativa e che volevano restituire le gavette.

In seguito a queste parole si affacciò il  Girardi; ci fu un veloce battibecco e l’invito a tornarsene a casa.  Alle insistenze del Nettis, Girardi lo minacciò e subito dopo ordinò di aprire il fuoco. Dal tetto della masseria, dalle feritoie, dai balconi i proprietari fecero partire  simultaneamente  una serie di fucilate.  I contadini erano disarmati; appena i primi caddero feriti, gli altri abbandonarono le zappe davanti alla recinzione della masseria e se la diedero a gambe, cercando scampo.  Subito dopo si spalancarono le porte della masseria e dalla stalla uscirono i primi proprietari a cavallo; gli altri scesero dal primo piano e si lanciarono anch’essi a cavallo all’inseguimento, sparando ai contadini. Alla fine delle operzioni si contarono 32 feriti furono e 6  morti: Pasquale Capotorto, Vito Falcone, Vincenzo Milano, Rocco Montenegro, Rocco Orfino, Vitantonio Resta. Il più giovane di essi, Vitantonio Resta aveva sedici anni, il più vecchio ne aveva 70.

Il corpo più vicino alla masseria distava dal muricciolo di cinta almeno 100 metri, l’ultimo ritrovato ucciso era ad un chilometro dalla masseria.

Nel tardo pomeriggio del 1° luglio 1920 contadini e braccianti si ritrovarono presso la  Camera del Lavoro di Gioia, dove Domenico De Leonardis, dopo aver organizzato i primi soccorsi per i feriti, proclama lo sciopero generale cittadino e zonale.

La reazione popolare all’eccidio non si fece attendere. Furono creati dei posti di blocco e il 2 luglio furono ammazzate tre persone che si riteneva legate all’azione degli agrari. Poi arrivò l’esercito a  ristabilire l’ordine. Per i funerali dei contadini uccisi, un lungo corteo funebre attraversò il paese: tra le orazioni commemorative, ci fu anche  quella di Giuseppe Di Vagno.

Nella notte fra il 1 e il 2 luglio, braccianti e leghisti si organizzano in diversi gruppi armati per perlustrare e battere tutta la campagna gioiese al fine  di catturare e giustiziare gli assassini. Quando si sparse la voce che gli uccisori si erano rifugiati verso la strada che conduce a Putignano,  presso la masseria di un proprietario imparentato con la famiglia di Natale Girardi,  i contadini si dirigono in quella direzione, e precisamente a Masseria La Grotta;  lì trovano il proprietario Pinto, che viene ferito mortalmente  con una palla sparatagli in fronte.

Nella mattinata del 2 luglio viene sorpreso per le vie di  Gioia un altro proprietario, di nome Nico Filippo, che viene ucciso a colpi di rivoltella e di falcetto. Identica  sorte tocca al cav. Vito Leonardo Fiorentino, sorpreso  anche lui a passeggio per strada. Altri due proprietari (Favale e Procino) verranno aggrediti e malmenati dai contadini, ma riusciranno  a salvarsi insieme al prete Donato Capurso.

I funerali dei sei braccianti assassinati (Capotorto Pasquale, Orfino Rocco, Montenegro Rocco, Milano Vincenzo, Falcone Vito e Resta Vito Antonio) si svolgono nella serata di venerdì 2 luglio e rappresentano la manifestazione centrale dello sciopero cui avevano aderito anche i braccianti di Santeramo in Colle, Acquaviva delle Fonti, Sammichele di Bari, Noci e Putignano. A conclusione delle esequie, parlano il pastore evangelico Liutprando Saccomanni e i dirigenti socialisti Musacchio, Di Vagno e Capozzi.

Lo sciopero generale si conclude il 4 luglio con un comizio, nel corso del quale prenderanno la parola gli onorevoli Arturo Vella e Andrea Barbato, De Leonardis e Nicola Capozzi.

Il 5 luglio vengono arrestati numerosi contadini ritenuti fra i più facinorosi organizzatori della rappresaglia popolare e,  alla fine di luglio viene arrestato il segretario della  Federazione provinciale del PSI, Nicola Capozzi, quale istigatore e correo negli assassini consumati sui contadini.

Il movimento popolare di terra di Bari organizza per il 1° agosto 1920 una grande manifestazione di protesta (alla quale partecipano oltre 10.000 cittadini) contro la repressione poliziesca e per ottenere la liberazione di tutti gli arrestati. Il 5 agosto a Bari viene costituito un Comitato regionale pro-vittime politiche, che, insieme a  Puglia Rossa, quindicinale delle organizzazioni politiche ed economiche del Partito Socialista Italiano in Terra di Bari, apre una sottoscrizione a sostegno dei lavoratori incarcerati e delle loro famiglie.

Sono subito evidenti i risultati di questa lotta: venerdì 6 agosto 1920 Nicola Capozzi viene scarcerato; egli tiene innanzi al largo della Camera del Lavoro di Bari, un comizio nel quale annuncia la liberazione di altri 24 compagni; a Gioia, inoltre,  si ricostituisce la Commissione paritetica per l’Avviamento al Lavoro e, infine, all’inizio di novembre, nella sede della cattedra di Agricoltura di Bari, tra la Federterra, rappresentata da De Leonardis,  e la Federazione Provinciale degli Agrari, rappresentata dal cav. Casardi, viene siglato un accordo che sancisce il regolare trattamento dei braccianti. Questo accordo viene costantemente osteggiato e  respinto dagli agrari.

Infatti nel settembre del 1920 il massaro Petrera fece  fuoco contro quattro contadini che gli erano stati assegnati dalla Commissione paritetica, ferendone gravemente uno. Segue la proclamazione di un altro sciopero generale, che si protrae per altri 12 giorni.

Un notevole contributo alla conoscenza degli eventi è stato portato dalla professoressa Dina Montebello, un sunto del quale è stato pubblicato   nel 18° Foglio di identità territoriale, a cura dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Gioia del Colle nel 2003, “I bossoli dentro il pane”.

La ricostruzione degli avvenimenti di luglio è stata effettuata facendo ricorso ai sottostanti documenti.

Il Commissario di P.S. di Gioia, dott. Cosenza, lasciò la seguente dichiarazione: Soltanto circa le ore 10,30 fui avvisato il 1° luglio dal Commissario comunale che potevano verificarsi incidenti alla masseria Girardi. Nonostante fossi da vari giorni fuori servizio, stante la conoscenza delle persone e del luogo, e nell’intento di comporre la vertenza, uscii appositamente da casa recandomi in Municipio dove insieme al detto Funzionario, chiamato il Comandante l’Arma  dei RR. CC., il segretario della Camera del Lavoro, il rappresentante dei proprietari, fu esplicata opera in modo che la questione sembrava avviata alla soluzione. Ma non si fece in tempo a portare ciò a notizia dei contendenti, che il conflitto avveniva. Mi risulta, per quanto ho detto nel precedente verbale, in tale conflitto mentre non sono mancati eccessi dei leghisti nelle proprie pretese, d’altra parte, vi era completa la preordinazione del delitto da parte dei proprietari.

L’indomani, 2 corrente, verso le 8 ad opera di gruppi di facinorosi divisi in squadre, si iniziò la caccia all’uomo, e furono in un momento aggrediti barbaramente nel rione S. Antonio il massaro Nico Filippo, il sacerdote Capurso Leonardo di Vincenzo, il proprietario Procino Giovanni ed il sellaio Favale Michele. Mentre la Forza pubblica attratta dal clamore accorreva sul posto e metteva in fuga gli aggressori, una parte di questi passava in via Cavour, dov’è la sede della Federazione Provinciale Socialista Massimalista, di cui è segretario Capozzi Nicola di Vincenzo, per rinnovare la strage. In quel mentre passò per la suddetta via il cav. Fiorentino Vito Leonardo, uscito dall’Ufficio postale e diretto a casa sua. Fu scorto dai leghisti fermatisi davanti alla sede dell’Associazione ed allora fu decisa la sua morte. Di fatti si staccarono dalla massa diversi gruppetti che tennero d’occhio la vittima, la quale, giunta davanti alla Lega, per essere preso meglio di mira, fu salutato da alcuni di loro, mentre un altro gruppetto che lo seguiva, avanzò il passo per raggiungerlo. Uno di quest’ultimo gruppo, identificato poi per Milano Vito  Filippo si staccò dagli altri e, avvicinatosi al cav. Fiorentino, gli esplose contro tre colpi di rivoltella facendolo reclinare su se stesso e cadere a pochi passi dalla Lega. Fu allora che gli altri con bastoni, armi bianche e pietre lo finirono.

La trascrizione  dell’interrogatorio del bracciante capo-squadra Nicola Nettis  riporta  in forma italiana  quanto segue: Io riunii 108 o 111 contadini, ed il 1° andante ci recammo allo stesso fondo di Girardi per terminare il lavoro nel vigneto. Terminato il lavoro verso le 13,30 ci presentammo in numero di 40 o 50 dinanzi al fabbricato della masseria mentre tutti gli altri erano sparsi sulla stradella che conduce alla masseria  predetta, alla distanza di 20 o 30 metri dal fabbricato. Le porte erano tutte chiuse. Sul balcone seduto e fumando a pipa era Girardi Natale di Sergio, il quale alla nostra richiesta di pagamento, anzi alla mia esibizione della nota dei contadini da pagare, rispose: Io non pago nessuno, neppure ai Carabinieri.  Noi rispondemmo: pigliati almeno la nota poi si vedrà coll’intervento dell’Autorità se dovrai o no pagare. Prima di pagare puoi benissimo accertarti a Gioia che noi siamo effettivamente dei nullatenenti. Il Girardi a sua volta replicò: Fetenti, vi fate forti per il numero, avanti, fuoco! Ciò detto si rinchiuse in casa mentre dalla terrazza e successivamente dai parieti circostanti cominciò un violento fuoco di fucileria. Noi spaventati ci demmo alla fuga mentre i nostri aggressori, usciti dai nascondigli, alcuni a piedi liberi ed altri a cavallo presero ad inseguire armati di fucile sparandoci alle spalle ed invitandoci ad affrontarli con le parole: Carogne, aspettate…

Dalle relazioni del maresciallo dei RR.CC. e del Commissario di P.S. al Pretore di Gioia  apprendiamo:

Immediatamente ci recammo sopra luogo con tutta la forza disponibile, contando sul piazzale innanzi la masseria evidenti segni della lotta  cruenta, rinvenendo sulla strada a circa 200 metri dalla masseria, due cadaveri identificati, poi, per quelli  delle persone di Capotorto Rocco e di Milano Vito Vincenzo ed in seguito nei pressi dell’aia prospiciente alla masseria, un altro cadavere identificato per Orfino Rocco ed ancora in un fondo attiguo,  quasi lateralmente alla masseria, un altro cadavere identificato per Falcone Vito Filippo. In seguito sono stati ancora rinvenuti altri due cadaveri nelle campagne adiacenti, identificati per Montenegro Rocco e Resta Vito Antonio, tutti contadini facenti parte della squadra che erasi recata a lavorare abusivamente. Rinvenimmo anche due feriti, che trasportammo al locale ospedale di cui uniamo il referto medico. La masseria fu trovata da noi deserta e chiusa: sul piazzale c’era una gran quantità di bossoli e cartucce. Nel recinto dietro al muro adottato a trincea si vedono sette posti improvvisati per gli individui appostati, con recipienti pieni d’acqua e vino, qualche bicchiere e gran quantità di  munizioni molte esplose. Piantonati i cadaveri ed il luogo dell’eccidio, informammo immediatamente la locale Autorità giudiziaria ritornando subito in città per accertare il numero dei feriti che tornavano in paese e fronteggiare alla gravissima minacciosa situazione che veniva delineandosi in città in seguito alle gravi notizie divulgatesi. Dagli accertamenti e dalle indagini praticate nei riguardi dell’eccidio avvenuto alla masseria dei Girardi, resta assodato che circa le ore 10 del 1° corrente nella masseria tenuta da Tateo Pasquale si riunirono numerosi proprietari e fittavoli di Gioia del Colle e dopo aver confabulato,  verso le ore 11, armati si diressero verso la contrada Marzagaglia riunendosi nella masseria di Girardi Natale fu Sergio.

Dal verbale dell’interrogatorio del contadino Giuseppe Ammaturo apprendiamo:

Durante la notte dal 1° al 2 andante insieme con Colacicco Vito, Sportelli Donato, Valentino Galatola, Filippo Palmisano, tutti da Gioia ed altri di cui non so le generalità, verso le ore 22  ci avviammo lungo la via di Putignano decisi a vendicare i compagni che erano stati aggrediti durante il pomeriggio precedente. Lungo la strada si stabilì di andare ad assalire la masseria del defunto Giuseppe Pinto fu Luigi e quello che ci dirigeva era il Colacicco Vito già nominato. Giungemmo in contrada Monte Sannace verso le ore 24. Colà si presero gli accordi per circondare la fattoria del Pinto e nello stesso tempo per avere maggiore numero di armati, fu disposto che altri compagni si recassero nelle masserie adiacenti per ottenere fucili, rivoltelle o pugnali. Verso le 3 o poco più, quando incominciava già ad albeggiare, Colacicco Vito, Sportelli Donato, Valentino Galatola, Palmisano Filippo, tutti armati di fucile, insieme con altri che non conosco, si recarono alla masseria del Pinto per ammazzare lo stesso proprietario. Io con altri pochi uomini rimasi sulla strada la quale dista pochi metri dallo stabile. Dopo una mezz’ora di attesa sentimmo vari colpi di fucile e notammo molti che scappavano. Avendo visto ciò noi scappammo ugualmente dirigendoci verso Gioia.

La Stazione dei RR.CC. di Putignano, dopo le indagini preliminari, stilò il seguente verbale:

Ieri verso le 11 venimmo a conoscenza che alla masseria La Grotta confinante  col territorio di Gioia del Colle alle 4 dello stesso giorno, per opera di una quarantina di armati sconosciuti, era stato circondato il fabbricato della masseria medesima e quindi fatto segno ad un nutrito fuoco di fucileria, durato circa mezz’ora, dal quale rimase gravemente ferito alla testa il proprietario Pinto Giuseppe, d’anni 38 proprietario, nato a San Michele, che imprudentemente erasi affacciato alla terrazza. A tale notizia, noi suddetti militari, unitamente al locale sig. Giudice, ci recammo in luogo per le necessarie verifiche ed indagini. Quivi constatammo la veridicità di quanto sopra è detto. Aggiungiamo che il Pinto fu colpito alla testa da un proiettile riportando lesine cerebrale gravissima. Le persone interrogate dal sig. Giudice sono concordi nel ritenere che gli autori della barbara aggressione siano di Gioia del Colle, mentre i congiunti del ferito affermano ciò desumendo dalla pronuncia degli assassini. Nessuno però riconosce quest’ultimi né sa dare di qualcuno i connotati.

I parenti del ferito sono convinti che gli assassini siano gioiesi anche perché esiste un vincolo di parentela tra loro e la famiglia del proprietario Girardi nella masseria del quale sarebbe avvenuto il noto conflitto fra proprietari e contadini in tenimento di Gioia del Colle.

Dal verbale d’esame  del testimone Vito Borrello, pastore di Sammichele di Bari, risulta:

Quella notte ho sentito abbaiare il cane e mi sono alzato. Ho visto un gruppo di sette o otto persone le quali mi hanno imposto di avvicinarmi a loro. Mi hanno chiesto di chiamare il padrone Giuseppe Pinto. Io non ho voluto chiamarlo. Mi hanno domandato se vi sono altre persone nella masseria. Ho risposto che vi era solo il padrone con le donne. Mi hanno per forza costretto a seguirli e mi hanno condotto sulla strada di Gioia-Putignano. Poi ho visto, dietro la pariete, altri 10 o 11 contadini che si sono avvicinati a me. Uno di essi ha detto: hanno ucciso quattro fratelli nostri e noi vogliamo da mangiare. Poi un gruppo si è avvicinato alla masseria ed hanno ripetutamente bussato al portone. Ho sentito la voce del padrone che domandava che cosa volessero. Poi ho sentito dei colpi di fucile e le grida del padrone.

L’istruttoria del processo durò circa due anni, coinvolgendo direttamente 88 braccianti e 33 proprietari. Il 7 gennaio del 1922 la Corte di Assise di Trani formulò la sentenza istruttoria, rinviando 17 proprietari e  39 braccianti al processo, ed assolvendo e liberando gli altri. Il 22 aprile si aprì un processo stralcio a Bari per 16 di quei braccianti, accusati di violenza privata per il disarmo dei proprietari nella notte tra  il 1° e il 2 luglio del 1920. Sette di loro furono assolti e nove furono condannati a pene inferiori a due anni. Il 19 maggio del 1922 si aprì dinanzi alla Corte di Assise di Bari il “processone”.

Il processo durò oltre tre mesi e si concluse solo il 31 agosto 1922, con l’assoluzione degli agrari dall’accusa di 6 omicidi e 32 mancati omicidi, per legittima difesa. Anche i braccianti accusati dell’omicidio di Pinto, Nico e Fiorentino, e del mancato omicidio di Michele Favale, di Giovanni  Procino e del prete Donato Capurso, furono assolti, tranne Colacicco e Ammaturo.

L’avvocato Raffaele Bovio, sindaco di Bari, difensore dei proprietari, nella sua arringa aveva affermato: Il diritto di proprietà è sacro ed inviolabile …. Difenderlo è un dovere.

L’avvocato, onorevole Enrico Ferri, difensore dei braccianti, nella sua arringa disse: In questa aula vi sono due gabbie; manca una terza, quella del vero imputato: lo Stato, il Governo.

Questo verdetto di pacificazione, in realtà, non consentì di individuare, né punire i reali responsabili dell’eccidio gioiese e legittimò l’aspirazione  dei latifondisti e di parte della borghesia rurale a procedere sulla strada di una regolazione violenta dei conti con il movimento operaio e contadino pugliese.

La sentenza fu emessa dalla Corte di Assise di Bari nell’agosto del 1922, in un momento molto particolare, negli stessi giorni in cui la città visse tensioni da guerra civile, con l’aggressione dei fascisti alla Camera del Lavoro di Bari vecchia. Siamo a circa due mesi dalla futura e storica Marcia su Roma.

I fatti di Gioia del Colle ebbero risonanza non solo sugli organi di stampa regionali e nazionali, ma anche in Parlamento dove furono presentate numerose interpellanze, che portarono alla costituzione di una Commissione Governativa d’inchiesta con il compito di verificare la situazione che aveva portato a scontri tra proprietari e contadini in terra di Bari,  di analizzare il problema della disoccupazione e le condizioni dell’agricoltura, per proporre interventi tesi ad evitare ulteriori violente manifestazioni tra le parti.

Pur tra tante difficoltà nella risoluzione ragionevole dei conflitti tra proprietari e contadini la Commissione, suggerendo la concessione obbligatoria delle terre in enfiteusi, l’esecuzione di un piano di lavori pubblici e la concessione di crediti agrari ai piccoli e medi agricoltori, di fatto riconosceva il diritto dei contadini al lavoro e alla conduzione di un appezzamento di terra.

A 51 anni di distanza da quel verdetto, a giugno del 1973, a cura della sezione del P.C.I. di Gioia del Colle, viene pubblicato come supplemento al n. 3 di “NUOVA PUGLIA” una pubblicazione dal titolo QUEL 1° LUGLIO DEL 1920  cronaca dell’eccidio dei braccianti di Gioia del Colle ad opera della reazione agraria, opuscolo che fu presentato nel Teatro Comunale di Gioia il 30 giugno.  I promotori di tale  pubblicazione  intendevano rendere omaggio all’8° Congresso (Bari 2-7 luglio 1973) della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, protagonista gloriosa delle grandi lotte del popolo meridionale per il lavoro, la terra e lo sviluppo del Mezzogiorno.

Il 1° luglio 1973, giorno del 53° anniversario dei fatti di Marzagaglia, la Camera Comunale del Lavoro C.G.I.L. e l’Unione Sindacale Comunale C.I.S.L. di Gioia del Colle hanno organizzato una visita alla masseria di Marzagaglia, luogo dell’eccidio e successivamente hanno scoperto  una lapide commemorativa dei martiri del 1° luglio 1920, sulla quale sono riportati i nomi dei  sei braccianti caduti presso la masseria Girardi a Marzagaglia, la quale è stata affissa sulla facciata della chiesa di san Domenico, adiacente la sede del Municipio di Gioia del Colle.

Negli anni ’80 le vittime della sparatoria del 1920 sono state equiparate alle vittime della persecuzione fascista  ed ottengono tardivamente una medaglia.

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6 Aprile 2020

  • Scuola di Politica

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