Un dipinto ad olio su tela nella Chiesa di S. Domenico
In questo mese dedicato alla Madonna del Rosario a chiunque sia entrato nella Chiesa di S. Domenico, annessa al nostro palazzo municipale, per un omaggio alla Vergine, raffigurata nel bell’acrolito di ceramica dagli occhi di cristallo, con il Bambino in braccio, entrambi in abiti ricamati in oro, non sarà sfuggita la freschezza di una tela […]
In questo mese dedicato alla Madonna del Rosario a chiunque sia entrato nella Chiesa di S. Domenico, annessa al nostro palazzo municipale, per un omaggio alla Vergine, raffigurata nel bell’acrolito di ceramica dagli occhi di cristallo, con il Bambino in braccio, entrambi in abiti ricamati in oro, non sarà sfuggita la freschezza di una tela recentemente restaurata, appesa alla parete sul secondo altare di destra.
Vi si riconoscono tre Santi domenicani: in alto, il predicatore s. Vincenzo Ferrer, la cui iconografia di Angelo dell’Apocalisse lo ritrae con le ali, la fiamma sulla testa e la tromba, qui riprodotta in mano ad un puttino; in basso, in primo piano, s. Pietro da Verona con la mannaia sulla testa e la palma del martirio, offertagli da un altro angioletto, mentre con l’indice intinto nel suo stesso sangue scrive: Credo in Deum; al centro, s. Tommaso d’Aquino, il Doctor Angelicus, con il sole nel petto, che infiamma le sue virtù di sapiente ed è l’unico a guardare l’ostensorio in alto a destra, mentre pare che scriva, incarnando amore e fede nel mistero eucaristico.
Il Santo più noto fra i tre, Tommaso d’Aquino, era nato nel 1225 a Roccasecca, tra Roma e Napoli, nell’attuale provincia di Frosinone, ed era imparentato con Federico II di Svevia: in pieno conflitto tra Impero e Papato, che aveva scelto il potere temporale per ragioni di rappresentanza, ed in contrasto con la volontà dei suoi genitori, Tommaso si affidò ad un ordine mendicante, quello dei Domenicani, che lo inviò a Parigi, pur essendo egli legato all’Università di Napoli. Lasciò incompiuta la Summa Teologica.
Il quadro si inserisce tra le molte testimonianze sul culto solenne tributato all’Eucarestia dall’Ordine Domenicano. Per questo nei refettori domenicani è frequente la rappresentazione dell’Ultima Cena: l’esempio più celebre è il dipinto di Leonardo da Vinci in S. Maria delle Grazie a Milano.
S. Alberto Magno, maestro di s. Tommaso, anch’egli raffigurato nella nostra Chiesa di S. Domenico in una tela sul pulpito, sosteneva che: “In tutte le circostanze della vita occorre mantenersi in intima comunione con Dio, mediante un’affettuosa unione con Cristo e la Sacra Scrittura, per diventare strumenti e testimonianze di comunione”. Inoltre: “Ogni volta che due cose si incontrano, la più potente trasforma l’altra”. Da qui la fioritura di Santi eucaristici, raffigurati anche nella sacrestia, tra i quali: s. Pio V, s. Caterina da Siena, che si nutriva solo di Gesù eucaristico, s. Alberto, papa Paolo III, che nel 1539 fondò la Confraternita del SS. Sacramento, che avrebbe poi istituito l’esercizio di adorazione delle quarant’ore.
“In comunione con Cristo e fra di noi, in modo visibile su questa terra!”: è il messaggio gioioso e di speranza del dipinto, nelle parole di padre G. Distante, un “apostolo dell’ecumenismo”, movimento teologico, che da più di un secolo opera, ricerca e prega per l’unità dei Cristiani, già docente di “Storia della Chiesa antica e medievale”, Rettore della Basilica di S. Nicola e Priore della Provincia di S. Tommaso d’Aquino dell’Italia meridionale.
“è un quadro molto importante per iconografia e vissuto, svelato dal restauro”, secondo Maria Gaetana Di Capua, ex capo restauratore nella Basilica di S. Nicola, restauratrice di questa tela e di altre immagini di culto gioiesi, anche in legno e in pietra. Seppure di autore ignoto (spesso la firma manca o perché si trovava sul retro o per essere un lavoro di bottega), questo dipinto ad olio su tela è attribuibile al XVIII secolo ed è sicuramente di ambito meridionale.
L’analisi dettagliata ha rilevato un pessimo stato di conservazione. La tela è tagliata lungo tutto il perimetro e presenta due cuciture verticali: sono frammenti di puro lino, molto pregiato, cuciti a mano con alette sul retro, come per gli abiti; normali le screpolature, dovute all’essiccamento del colore con il passare dei secoli. Il quadro aveva già subito un intervento maldestro, non un vero restauro, forse quindici o vent’anni fa: era stato ridipinto, perché non in buono stato (si ipotizzano buchi, lacerazioni, cadute di colore), da un pittore, che aveva ricalcato con colori solidi le figure e le architetture coperte ed aveva tentato di reincollare frammenti di colore, ma fissandoli al contrario e in modo disordinato; l’ostensorio e l’angelo in alto risultano tagliati. Il supporto era deformato, incurvato, incartapecorito, irrigidito. I frammenti sono stati ricollocati in sede, il colore è stato consolidato, la tela rifoderata, chiuse le microlacune: un lavoro non semplice, perchè occorre molta delicatezza per rimuovere le ridipinture e si opera sotto il duplice controllo della Soprintendenza, con cui si concordano gli interventi, e della committenza.
Forse nel dipinto si riflettono due scuole di pittura, in particolare per la resa diversa del Santo in primo piano; per la Di Capua è un lavoro di bottega, da qui l’individuazione di due mani diverse.
Ma in quali circostanze i Domenicani approdarono a Gioia? Nota il prof. Mario Girardi ch’essi sopraggiungevano ovunque fossero i Francescani: nel nostro caso, sul versante nord del borgo presso le mura. Secondo la tradizione raccolta dall’abate Losapio, i Domenicani si stabilirono a Gioia nella prima metà del ‘500, per controllare gli Albanesi, i Montenegrini e i Greci immigrati, ortodossi dagli “usi strani”, ovvero ereticali per la Chiesa del tempo. Tuttavia il primo documento storico sul momento iniziale dell’insediamento è più antico, risalente al 1460: vi si menzionano un piccolo convento ed una piccola chiesa, che costituivano un vicariato; nel 1489 ricevettero una donazione. Dal Decreto della Santa Visita dell’Arcivescovo di Bari nel 1593 si apprende che questa chiesa era intitolata a S. Maria delle Grazie, un culto preesistente, mariano, che evidentemente i Domenicani avevano trovato qui al loro arrivo. Era già operante in essa una piccola Confraternita del Rosario: composta di pochi soci ancora nel 1623, viveva di elemosine, ma assisteva gli infermi e garantiva la sepoltura ai suoi componenti.
Nel 1654, appena due anni dopo la soppressione decretata da papa Innocenzo X, riguardante le piccole comunità religiose con cinque o sei monaci e con rendite insufficienti, si ebbe il ripristino del convento (come avvenne anche per quello di S. Francesco), fortemente voluto dalla popolazione gioiese. Del 1662 è, invece, la prima citazione della statua lapidea di S. Francesco di Paola: anch’essa ultimamente è stata oggetto di un sorprendente restauro.
Per il XVIII secolo si registra in Gioia una rinascita economica, culturale e religiosa, con una serie di lavori edili che interessarono edifici sacri: nel 1729 l’ingrandimento della Chiesa e del Convento di S. Francesco; nel 1764 l’abbattimento della Chiesa Madre romanica, fatiscente; tra il 1764 e il 1766 l’abbellimento della Chiesa di S. Domenico e l’ingrandimento del convento. Ma il 1 ottobre 1809 il Convento dei Domenicani possidenti venne soppresso e affidato al Comune: lo testimonia un documento sottoscritto dal superiore, p. Saverio Panessa, e dai frati, i cui nomi sono talora accompagnati dal signum crucis.
La Confraternita del Rosario, tuttora operante, ricevette, invece, nel 1838 il Regio Assenso al suo statuto, divenuto obbligatorio dal Concordato del 1818-1820 tra Santa Sede e Regno di Napoli, per ottenere il riconoscimento di istituzione pubblica.
Altre opere d’arte e di alto artigianato, custodite nella chiesa, attendono interventi di restauro, per i quali il priore Andrea Mongelli confida nel contributo generoso della cittadinanza.
Un sincero ringraziamento ai confratelli e ai devoti, che hanno sostenuto le spese degli ultimi restauri, e ai relatori della conferenza di presentazione del 30 giugno 2012, benedetta dal saluto del parroco, d. Tonino Posa, per averci offerto, ciascuno con le sue preziose competenze, un’occasione di crescita culturale e spirituale: il professore ed emerito studioso, Mario Girardi, per le note di storia e cultura gioiese; il giornalista Enzo Quarto, per aver tratteggiato in modo coinvolgente la figura di s. Tommaso d’Aquino; la restauratrice Maria Gaetana Di Capua, per la capacità di illustrare con chiarezza le fasi del suo complicato lavoro; il padre domenicano Giovanni Distante per la lettura iconografica e teologica del dipinto nel suo contesto storico; l’assessore alla cultura, prof.ssa Piera De Giorgi, che nel contemplare l’opera vi ha attribuito un monito a guardare in alto, ad ispirarsi alla leggerezza degli angeli, esprimendo l’orgoglio e la consapevolezza delle bellezze artistiche gioiesi.
Rossana D’Addabbo
21 Ottobre 2012