Il carbonaio
Il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, la tradizione popolare vuole che la Befana porti doni ai bambini: giocattoli e dolciumi per quelli bravi e pezzi di carbone per quelli che durante l’anno appena trascorso si sono comportati da monelli. Si trattava di carbone vero, cioè quello ottenuto dalla combustione della legna, anche se ai giorni nostri […]
Il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, la tradizione popolare vuole che la Befana porti doni ai bambini: giocattoli e dolciumi per quelli bravi e pezzi di carbone per quelli che durante l’anno appena trascorso si sono comportati da monelli. Si trattava di carbone vero, cioè quello ottenuto dalla combustione della legna, anche se ai giorni nostri è stato sostituito con carbone dolce, commestibile.
Gioia del Colle in passato faceva parte della Peucezia, un’ampia zona che si estendeva in gran parte della provincia di Bari e sconfinava anche in quelle di Taranto e di Matera. Era una terra ricca di boschi, come la confinante Lucania (da lucus, bosco), regione per eccellenza ricoperta di boschi.
Per gli usi domestici, come cucinare e riscaldare le abitazioni, si utilizzava la legna che i boscaioli tagliavano nei boschi. Anche per le attività artigianali, come costruire case, carri, attrezzi agricoli, utensili, e per l’utilizzo di suppellettili, come ogni specie di mobili, si faceva ricorso al legname.
Per avere continuamente a disposizione la legna per i vari utilizzi era buona prassi piantumare nuovi alberi in zone difficilmente coltivabili a cereali ed ortofrutta, cioè in terreni impervi o montuosi o con abbondante presenza di pietre.
Uno degli scopi principali del taglio dei boschi era anche quello di avere a disposizione maggiori estensioni di terreno da utilizzare per le pratiche agricole e per andare incontro al bisogno di ulteriori quantità di derrate alimentari e di cibo a causa dell’aumento demografico della popolazione.
Il taglio dei boschi e la potatura degli alberi, inoltre, fornivano la materia prima per ottenere il carbone.
Uno dei mestieri ormai scomparsi che un tempo dava lavoro ai nostri conterranei era quello del carbonaio.
Un quintale di carbone equivale, in termini di calorie, a circa dieci quintali di legna. Un viaggio di carbone con un mulo, che era in grado di trasportare anche due quintali di legna, equivaleva al trasporto di 20 quintali di legna, con grande risparmio di tempo e di sforzo. Fu questo uno dei motivi che portò alla produzione del carbone.
Per svolgere il mestiere del carbonaio era indispensabile il lavoro del boscaiolo, che doveva fornirgli la materia prima.
I boschi potevano essere demaniali, e quindi soggetti all’autorizzazione del Comune per essere utilizzati, di uso civico e quindi accessibili a tutti oppure potevano appartenere a privati cittadini, i quali decidevano di tagliarli per avere una quantità di legna anche per ottenere carbone, secondo le norme governative allora vigenti.
La presenza di numerosi boschi nel territorio di Gioia ha favorito da noi l’attività dei carbonai.
Svolgere l’attività di carbonaio era un mestiere che si tramandava di padre in figlio e si svolgeva in prossimità dei boschi, da cui si attingeva la materia prima per produrre il carbone, proprio per evitare la fatica e le spese per il trasporto della legna. Solo in alcuni casi la carbonaia era distante dai boschi, nel qual caso si utilizzavano gli asini, i muli o i cavalli per il trasporto della legna.
Le fasi più importanti erano: la palificazione, l’accatastamento della legna, la copertura e la combustione.
Si sceglieva una radura pianeggiante nel bosco, priva di vegetazione per impedire incendi, dove impiantare la carbonaia. Dopo aver spianato la base, una piazzuola circolare di varie dimensioni, adeguata alla quantità di legna da utilizzare, iniziava l’edificazione della carbonaia.
Intorno ad un’apertura centrale, detta camino, che serviva ad alimentare la combustione, si ponevano, in modo obliquo, sovrapposti e paralleli tra di loro, i pezzi di legna più grossi, fino ad arrivare alla parte esterna, ricoperta con tronchi più piccoli.
Si otteneva la forma di un cono con la punta rivolta verso l’alto, che assumeva la forma di un trullo o, meglio, di un vulcano, per la presenza di un’apertura nella parte superiore.
Una volta terminata la composizione di questa catasta di legna si ricoprivano le pareti laterali con vari strati di rami secchi, paglia e foglie secche delle piante; il tutto poi veniva ricoperto con della terra, per impedire che l’ossigeno, filtrando nell’interno, producesse una combustione a fiamma, con conseguente distruzione ed incenerimento del legname.
Per mettere in funzione la carbonaia si prendeva della brace, precedentemente ottenuta, e si introduceva dalla sommità del vulcano attraverso il camino che era stato preparato, insieme a pezzi di legno.
Si faceva accendere la brace sotto al camino e subito iniziava il lento processo di combustione di tutta la carbonaia. Si chiudeva il foro centrale con rametti, paglia e foglie e si ricopriva il tutto con terra.
Dopo aver acceso la carbonaia dalla parte superiore (alcuni provvedevano ad accenderla da un’apertura inferiore); si praticavano dei piccoli fori laterali nella parte bassa, a seconda della direzione del vento, per fare arrivare un po’ di ossigeno all’interno per alimentare la combustione.
Siccome l’ossigeno è limitato non si ha una vera e propria combustione, ma una disidratazione per cui la legna si cuoce lentamente senza bruciare, con conseguente carbonizzazione della stessa.
A seconda della grandezza della carbonaia la stessa poteva ardere per dieci, venti o addirittura trenta giorni. Osservando come la carbonaia ardeva i fori potevano essere effettuati più in alto o più in basso.
La carbonaia veniva controllata anche di notte perché se la combustione da lenta diventava eccessiva poteva prendere fuoco e andavano sprecati non solo i quintali di legna utilizzata, ma anche il lavoro di un intero anno, oltre il mancato guadagno economico. Per questo motivo i carbonai in genere vivevano in baracche vicino alla carbonaia.
Quando il processo di carbonizzazione era terminato, e ci si accorgeva dal fumo bianco che lentamente si dissolveva, si smontava la carbonaia. Quando il carbone si era raffreddato si raccoglieva in sacchi di tela o di iuta e con carri trainati da animali veniva trasportato nei magazzini per essere venduto oppure alcuni commercianti passavano attraverso le strade dei paesi perché gli abitanti che ne erano sprovvisti ne facessero scorta per l’inverno.
Carbonaio era anche il venditore ambulante di carbone, che girava per i paesi con un carro carico di sacchi di carbone e carbonella che vendeva dopo averne misurato la quantità in stoppelli o mezzetti.
Il carbone e la carbonella, infatti, erano usati per i bracieri per riscaldare gli ambienti domestici e anche per riscaldare i ferri da stiro per la stiratura dell’abbigliamento e di lenzuola ed asciugamani.
Poiché durante le operazioni di pesatura e di travaso la polvere che si sollevava anneriva le mani e il volto dei carbonai, le mamme per far cessare i capricci e azioni cattive cercavano di intimorire i propri figli dicendo loro che se avessero continuato nei loro atteggiamenti sarebbe venuto l’uomo nero.
Tutti i membri della famiglia, anche i più piccini, erano coinvolti durante la preparazione e poi nell’insaccamento del prodotto.
Molti contadini producevano la carbonella per soddisfare le necessità della famiglia; la quantità eccedente la vendevano.
Oggi il carbone, quando serve, si acquista nei grandi magazzini.
Svolgere il lavoro del carbonaio è un’attività molto dura e sporca, da svolgere con qualsiasi clima: pioggia, gelo, afa. Richiede molti sacrifici e si dorme poche ore di notte.
Sembra che la pratica di produzione del carbone risalga ai Fenici.
Anche a Gioia vi erano lavoratori che svolgevano il compito di carbonaio ed altri che andavano in giro per il paese a vendere carbone e carbonella. Un cittadino gioiese, in particolare, per la sua attività di venditore di carbone, veniva soprannominato Luchett u carvenarìjr, cioè Luca, il venditore di carboni.
In contrada Marchesana è ubicata una masseria, la cui costruzione risale al 1820 che oggi è sede di una cantina che produce il famoso vino Primitivo di Gioia del Colle.
La masseria, infatti, è stata acquistata dal signor Filippo Cassano, il quale ha dato al suo vino Primitivo la denominazione di Polvanera. Tale denominazione è dovuta al fatto che la masseria in origine era utilizzata per la produzione di carbone. La famiglia che era proprietaria della masseria veniva indicata con il soprannome dialettale Polvagnor, in italiano Polvere nera, a ricordo dell’antica tradizione di produrre in quella zona i carboni e della polvere nera che si sprigionava durante il processo di combustione e di insacchettamento dei carboni. La pelle, infatti, a contatto con la polvere del carbone, acquisiva una colorazione scura. Alcuni locali della vecchia masseria mostrano ancora i segni del rilascio di quella polvere nera anche sulle pareti di pietra della costruzione.
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6 Gennaio 2023