La famiglia Panessa

Il cognome Panessa, come ci ricorda Francesco Saverio Perillo nella sua ricerca storica Onomastica slava di Gioia, è  di provenienza slava, una fra le più prestigiose dell’epoca, con tutta probabilità immigrata dall’opposta sponda slava. Sarebbe  stato importato a Gioia a seguito dell’arrivo degli Schiavoni nella nostra città nel 1459, allorquando un contingente slavo-albanese, con a […]

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Il cognome Panessa, come ci ricorda Francesco Saverio Perillo nella sua ricerca storica Onomastica slava di Gioia, è  di provenienza slava, una fra le più prestigiose dell’epoca, con tutta probabilità immigrata dall’opposta sponda slava.

Sarebbe  stato importato a Gioia a seguito dell’arrivo degli Schiavoni nella nostra città nel 1459, allorquando un contingente slavo-albanese, con a capo Giorgio Castriota Scanderberg, intervenne nel conflitto dinastico tra Angioni e Aragonesi.  Al termine del conflitto alcuni di loro tornarono in patria, altri presero stabile  residenza a Gioia e, grazie a loro, il nostro Comune, che era ridotto a pochi fuochi, si ripopolò.

I documenti visionati attestano che Panessa è stata una famiglia di riguardo di Gioia.

Notizie certe della presenza della famiglia Panessa a Gioia del Colle le ritroviamo dai resoconti delle S. Visite che gli Arcivescovi di Bari tennero nella Chiesa Madre  a partire dalla seconda metà del ‘500.

La prima Santa Visita effettuata  alla Chiesa Madre di Gioia  sembra risalga al 1578, ad opera  dell’Arcivescovo di Bari Antonio Puteo.

Al termine della sua Visita, nello stilare il verbale il Puteo elenca anche le disposizioni riguardanti  l’Altare di santo Lonardo. Afferma che il sacerdote beneficiato è detto essere  d. Vito Panessa, che fino ad allora non

aveva ancora provveduto a far dipingere l’immagine del santo e costruire una pedana ampia di legno per le celebrazioni liturgiche.

A seguito della Visita dell’Arcivescovo di Bari, Ascanio Gesualdo, del 1623, si chiarisce che quanto all’altare di san Leonardo, già incontrato nella S. Visita del 1578 e colà affidato a d. Vito Panessa, quale rettore, quest’ultimo è stato nel frattempo affiancato nelle sue funzioni dal chierico Giovanni Antonio Panessa, poiché l’altare risulta fin dalle origini di patronato della famiglia Panessa.

 A seguito della S. Visita effettuata dall’Arcivescovo Diego Sersale nel 1652 si dice che anche la famiglia Panessa, da sempre titolare del patronato sull’altare di S. Leonardo, gode del diritto di sepoltura. A dividersi i proventi di due benefici sono d. Angelo Panessa e d. Francesco Antonio Panessa. L’altare e decentemente adornato.

Le  SS. Visite del 1658 e del 1662 da parte dell’Arcivescovo Sersale riportano che l’altare di  S. Leonardo, del quale rimangono come rettori e cappellani due rappresentanti della famiglia Panessa, d. Angelo e d. Francesco Antonio,  è privo di baldacchino e senza gradini per cui rimane sospeso finché non ottempereranno a sistemarlo.

Nella S. Visita  del 1677 da parte dell’Arcivescovo di Bari Giovanni Francesco Granafei non viene indicato l’altare di S. Leonardo, di cui in un’altra parte degli Atti si dice che il beneficio omonimo della famiglia Panessa è goduto attualmente da d. Pietro e d. Leonardo Panessa.

Al di là di questi documenti relativi  al mondo ecclesiastico,  abbiamo altre testimonianze in campo civile.

Dal Catasto onciario di Gioia del 1750 si cita  Don Angelo Panessa, beneficiato del Beneficio  dato nella Chiesa Madrice di Gioja sotto il titolo di S. Leonardo, surrogato nel 1734. Ancora si parla di D. Donato Panessa, sacerdote, beneficiato, che possiedé  il beneficio sotto il titolo di S. Lonardo, eretto nella Chiesa Madrice.  Si cita  il Beneficio di S. Leonardo, consistente in terre dentro le mura della Terra di Gioia, dirimpetto la casa del Rev. D. Donato Panessa, di un Legato del fu Santo Panessa e di prebende del Rev. Canon. D. Angelo Rocco Panessa, consistente in un parco nella contrada Cinque Parieti.

Abbiamo notizia di un notaio, Donato Panessa, che nel 1776  redasse l’atto di possesso della Confraternita di San Filippo nella chiesa di Sant’Angelo.

Gioacchino Murat nell’aprile del 1813 intraprese un viaggio in Puglia per visitarla sotto tutti i rapporti  militari, allo scopo di osservare tutte le coste e determinare i migliori punti di difesa lungo l’Adriatico.

Si fermò a Gioia nel palazzo del liberale Notar Paolino Panessa, in corso Vittorio Emanuele, ubicato a fianco del palazzo Cassano.

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Il Murat scambiò con tutti parole cortesi, ringraziò i gioiesi delle affettuose
accoglienze, dispiacendosi di non poter indugiare  a godere della mensa che era stata  imbandita in suo onore.

Il notaio Panessa, in quella circostanza,  ottenne la donazione a favore del Comune di Gioia, e per uso pubblico, dei fabbricati dei soppressi Conventi di S. Francesco e di San Domenico.

A ricordo della sua permanenza a Gioia il Murat permise che sul portone di casa del notaio  Panessa, in corso Vittorio Emanuele n.64, che lo aveva cordialmente ospitato, fosse scolpita la sua figura, immagine tuttora esistente.

Nel luglio del 1837 imperversò in Puglia il colera, che a Gioia, su una popolazione di 12.648 abitanti, dal 7 luglio al 14 settembre, mieté ben 633 vittime.

L’Arcivescovo di Bari, mons. Clary in data 13 luglio, dopo essere stato avvertito dall’Arciprete don Giovanni Miraglia della calamità che era in atto a Gioia, gli scriveva esortandolo, insieme all’intero Capitolo, a pregare perché il morbo avesse termine ed esortandoli a  prestarsi con alacrità all’esercizio del ministero, ove per avventura potranno essere chiamati …  Mi auguro che ad imitazione dei reverenti canonici Castellaneta, Panessa, Pavone, Stea minore, Eramo e Cantore, i quali si sono lodevolmente prestati, tutti gli altri si presteranno a tutto ciò di cui verranno richiesti dai congiunti degli infermi e da lei incaricati

Per ringraziare San Rocco per aver protetto i gioiesi dal contagio del colera, si tennero festeggiamenti in onore del Santo sia in Piazza S. Francesco che al Largo Panessa, un largo in via Fontana, con processioni, spari e concerti musicali.

L'economista e storico gioiese Giovanni Carano Donvito nella Storia di Gioia dal Colle riporta:  Esplosero e seguirono, alla fine dell'epidemia, l'allegrezza, gioie, feste e ringraziamenti ai Santi protettori, particolari a S. Rocco, in peste patronus ed in qualunque altro contagio… Alla vigilia dell'onomastico del Santo, e cioè del 16 agosto, il 13 si erano avuti 2 morti ed uno soltanto il giorno 14, cosicché l'intiera popolazione a gran voce chiese, alle autorità civili ed ecclesiastiche, di esporre al pubblico ed ornate, le statue dei nostri gran Santi tutelari e specialmente di S. Rocco; e, per miracolo o puro caso, non fu segnato alcun decesso!…  Il 16 agosto 1837… fu un continuo giubileo, un anno santo ed una perenne e santa peregrinazione dalla punta del giorno sino a sera inoltrata. La folla, la calca della gente si moltiplicava, per cui, osserva il Losapio, se la malattia fosse stata davvero contagiosa, lungi da diminuire, si sarebbe dovuta estendere al non plus ultra, mentre avvenne proprio il contrario! La divozione fu l'unica occupazione, che sospese tutti gli affari mondani, per darsi unicamente alla frequenza dei Sacramenti, alla penitenza ed alle incessanti preghiere; e per sensi di pietà e di gratitudine fecero voti ed offerte specialmente le donne, privandosi e spogliandosi dei loro ornamenti più ricchi. Era bello il vedere le statue dei Santi, soprattutte quelle di S. Rocco, coverte di oro e d'argento in collane, monili, fioccagli, orecchini, fibie, pettinesse e simili. La cera che si portava per tenersi continuamente accesa davanti alle statue e sugli altari ascese a migliaia di libbre. Messe, litanie, tridui, novene e settenari non cessavano da mane a sera, e nella cassetta dei poveri si versavano continuamente monete. Giunto il giorno destinato alla festa del Santo non è descrivibile il concorso, il raddoppiamento delle offerte, le questue da cui si ricavavano beni d'ogni sorta e perfino gioghi di vaccine ed altri animali.  Nella vigilia del Santo, molti facendo a gara chi per portare la statua, chi lo stendardo, chi il palio, chi il padiglione, si posero ad incarire per somme rilevantissime. La processione riuscì una specie di trionfo, e, per tutte le strade dell'abitato in cui fermavasi, raccoglieva doni ed offerte dei fedeli. L'accompagnamento di uomini e di donne fu interminabile e tutti con ceri accesi. Musiche, tamburi, trombe e grancasse facevano strepitosissima armonia. Spari e batterie ad ogni angolo, a spese di devoti particolari; palloni, cuccagne, palii carichi di commestibili e di premi. Per meglio distribuirsi la folla innumerevole di cittadini e forestieri accorsi, la festa fu divisa parte sul largo S. Francesco e l'altra al largo Panessa, con spari e concerti musicali continuati. Ma prima fu fatta una lunga cavalcata, che era chiusa da un carro trionfale, che portava in cima in sul fastigio la statua del Santo; e detto carro trionfale era accompagnato da una luminaria immensa. Il corteo cominciò a sfilare verso mezz'ora di notte e per un cammino lungo quasi un miglio tutta la cavalcata preceduta dal Sindaco e dai galantuomini più devoti, defilando, ne riempiva il lungo spazio e segnava una fascia luminosissima di grossi ceri, lunga e larga quanto la strada, preceduta e seguita da bande musicali. Ogni cavaliere era assiepato intorno a sé chi di quaranta ed anche più torce accese. La marcia descritta, prima di fare il giro del paese, si arrestò in bella mostra, ordinata, nei suddetti larghi di S. Francesco e di Panessa, assistendo con esultanza ed acclamazioni allo sparo dei fuochi artificiali, di batterie pazze, che non finivano mai, di mortaletti di grosso calibro, che ostentavano l'immagine della guerra, il fragore delle artiglierie ed il trionfo della vittoria. Si fece il conto che per cera consumata nella marcia della processione  del mattino e in quella della cavalcata della sera, si esitò il valore di circa ducati seimila, di cera pura e netta, senza contare il consumo di quaranta giorni continuati nelle chiese, sin dopo terminata la festa. Ed il consumo delle polveri da sparo a spese dei particolari divoti riesce affatto incalcolabile.

Francesco Paolo Panessa (1790-1859), fu Primicerio della Insigne Collegiata di Gioia, dottore in Filosofia e Matematica, nonché di Fisica, di Diritto Naturale e Pubblico. Insegnò nel Seminario Arcivescovile di Bari e fu Esaminatore Sinodale della stessa Archidiocesi.

Fu socio e Presidente della Reale Società Economica di Terra di Bari e membro della Commissione Provinciale di Pubblica Istruzione della stessa Provincia. Partecipò alla Vendita carbonara ‘La Costanza dei Bruti’ e per questo fu perseguitato dai Borboni.

Un Donatantonio Panessa fu sindaco di Gioia dal 1838 al 1840 e nel 1844.

Egli, dando seguito ad un proposta avanzata da un decurione nel 1837, nel 1841, approfittando della venuta a Gioia dell’Ing. Aggiunto provinciale  don Felice Ravillion, incaricato dall’Intendente di compilare la misura finale  dei lavori eseguiti alla Casa Comunale, accordando le premure e sollecitudini di questa popolazione, dette l’incarico al suddetto ingegnere di formare il progetto per un decente Teatro in Gioia, ben compreso della grande influenza che il Teatro esercita sulla pubblica morale, sui costumi sociali e sulla civiltà dei popoli e per tale scopo stanzia la somma di mille ducati.

Il Decurionato  approvò la proposta e considerò che sarebbe oltremodo dispiacevole per una popolazione numerosa e per un paese di commercio, che ospita tanti forestieri, il non avere un locale per Teatro.

Nel 1883,  su proposta del sindaco Cassano, è approvato l’esproprio  per pubblica utilità del giardino del ‘Beneficio Panessa’, confinante con via Garibaldi e via Orsini.

In via Fusco, meglio largo Fusco, adiacente Piazza Livia, sulla facciata di una casa privata, un tempo dimora della famiglia Panessa, è stata murata una scultura in pietra che raffigura la statua di Sant’Antonio abate, opera della fine del XV attribuita al primicerio Giovanni De Roccha, che  è uno dei pochi  pezzi che si sono salvati  a seguito della distruzione della Chiesa Madre nel 1764.

La statuetta, che  era presente in una cappella della Chiesa Madre, era stata già individuata dall’abate Francesco Paolo Losapio nella nota 8 del Canto  Quarto del suo volume: Quadro Istorico-Poetico sulle vicende di Gioia in Bari detta anche Livia, e da lui attribuita al primicerio Giovanni  Rocca, quale emblema del beneficio di S. Lonardo de’ Signori Panessa trasportato  dalla Cappella di San Lonardo, ch’era in Chiesa (Madre) in faccia alla casa del fu Canonico D. Donato Panessa.

La statuetta sovrasta uno stemma, che verosimilmente rappresenta quello della famiglia Panessa,  composto da due elefanti in marcia verso sinistra, uno dei quali è sormontato da una quercia e l’altro da due rami di palma, insieme a due pannelli laterali in pietra, aggiunti  successivamente, sui quali si può leggere: Per ordinacione de Dopno Domineco Panessa, Antonio suo frate a facto questa cappella ad sue spese 1783.

Via Fusco,  il luogo dove ancora oggi  si può ammirare la statuetta di sant’Antonio abate, reca tale denominazione, che deriva, come per  Panessa, da un cognome di provenienza slava.

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9 Aprile 2020

  • Scuola di Politica

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