1918-2018 Un centenario controverso

Quest’anno ricorre il centenario della fine della Prima guerra mondiale, una guerra che, senza precedenti, pur combattuta tra vincitori e vinti, al termine delle ostilità ha visto tutti perdenti, per l’alto numero di vite umane che hanno trovato la morte o che sono state rese invalide o disperse, a confronto degli scarsi ingrandimenti territoriali conseguiti. […]

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Quest’anno ricorre il centenario della fine della Prima guerra mondiale, una guerra che, senza precedenti, pur combattuta tra vincitori e vinti, al termine delle ostilità ha visto tutti perdenti, per l’alto numero di vite umane che hanno trovato la morte o che sono state rese invalide o disperse, a confronto degli scarsi ingrandimenti territoriali conseguiti. Ben altri sarebbero state le perdite se fossero state utilizzate le sofisticate armi in uso nel Secondo conflitto mondiale. Pur nondimeno dobbiamo segnalare le atrocità compiute nei confronti dei popoli nemici da parte di chi volutamente ha voluto creare uno sterminio di massa con gas, lanciafiamme, mitragliatori, aerei, artiglieria, proiettili dum-dum, sommergibili, utilizzati su larga scala.

Occorre considerare che la guerra non la vince chi riporta un minor numero di morti oppure ottiene il maggior numero di ingrandimenti territoriali o rimborso danni di guerra; la guerra la perdono tutti: vincitori e vinti, perché è frutto della stupidità umana, di un complesso di inferiorità da colmare o di un  complesso di superiorità da confermare e rafforzare!

Anche i più ferventi interventisti al cospetto della distruzione e dei disastri che la guerra stava operando cambiarono parere e si proclamarono contro la guerra e i suoi orrori (per tutti vale  il poeta Giuseppe Ungaretti).

Il bollettino della vittoria, firmato dal generale Armando Diaz, parla di vittoria dell’esercito italiano contro uno degli eserciti più potenti del mondo e ha accompagnato intere generazioni con l’orgoglio di aver conseguito una insperata vittoria contro una corazzata nemica.

In realtà i fatti e la storia hanno dimostrato che non si trattò di una vittoria; da più parti, infatti si parlò di vittoria mutilata (Gabriele D’Annunzio) e dello scarso valore corrispettivo ottenuto in ingrandimenti territoriali a confronto dell’alto prezzo speso in  perdita di vite umane in una guerra fratricida e stupida. Stupidità umana, che sacrifica vite innocenti per un pezzo di montagne e lande desolate!

E questa considerazione vale soprattutto per l’Italia, i cui reggitori delle sorti del tempo con toni trionfalistici e facendo leva su sentimenti patriottistici ne esaltarono le imprese eroiche. I dati delle enormi perdite di vite di uomini e giovanissimi sono abbastanza eloquenti dell’umana insipienza.

Numero delle vittime della I Guerra Mondiale

Di seguito  riporto un elenco delle forze mobilitate, dei caduti, feriti, dispersi, prigionieri, suddivisi per nazione.  I dati dei morti, a tutt’oggi incerti, comprendono i deceduti per tutte e cause; i dati dei dispersi comprendono dispersi e prigionieri di guerra.

A quasi un secolo di distanza dal termine della Prima Guerra Mondiale in Italia non è ancora dato di sapere quanti siano stati veramente i morti e i feriti tra i militari e i civili. Il reale costo della guerra in termini di vite umane non viene affatto reso noto.
Nell’arco di cinquant’anni le cifre relative ai soli caduti militari tende a “restringersi”: da 650.000 si è passati a poco più di 450.00, secondo alcuni “storici”.
Cerchiamo di fare un po’ di luce sulla questione fornendo alcuni dati.
Mentre il 28 luglio 1914 L’impero d’Austria e Ungheria dichiara guerra alla Serbia e segna l’inizio della Prima Guerra Mondiale, con l’entrata in guerra di altre nazioni europee nel mese di agosto: Germania, Russia, Francia, Inghilterra, Belgio, etc., l’Italia entra in
guerra accanto all’Intesa (Francia, Inghilterra, impero russo, etc.) il 24 maggio 1915 e chiude ufficialmente le ostilità alle ore 15.00 del 4 novembre 1918.
Il Regio Esercito Italiano mobilita in totale 5.728.277 uomini, dei quali 4.199.542 operativi sui seguenti fronti di guerra: albanese, italiano, francese, macedone.
Quarantatré mesi di guerra costano al Popolo Italiano un tributo in vite umane enorme, ma tutt’oggi ancora oggetto di controversie, perché non si è ancora stabilito con esattezza quanti siano stati i morti, i feriti, gli invalidi permanenti e i fucilati, tanto tra i militari quanto tra i civili. Le cause delle morti sono state determinate dalle armi sui campi di battaglia, dai suicidi, dalle esecuzioni (sia sommarie, sia a seguito di processi), dagli eventi climatici (gelo, valanghe, etc.), dalle privazioni, dalla malnutrizione, delle malattie, dalle epidemie.
A cinquant’anni dal termine del conflitto il Maggiore Generale, medico e professore, Ferruccio Ferrajoli, stende un resoconto delle perdite abbastanza attendibile, se si eccettua la mancanza del numero di soldati morti in prigionia per gli stenti causati da denutrizione e malattie: circa 100.000. Il medico parla di soli feriti morti in prigionia (16.000), perché i soldati che erano stati presi prigionieri venivano considerati alla stessa stregua dei disertori. Difatti tutti i rimpatriati, a fine guerra, sono stati sottoposti a processo militare.
Il totale delle vite umane perdute in questa guerra dall’Italia, ammonta alla enorme cifra di 680.071, delle quali 406.000 per fatti bellici. Il solo Esercito contò 317.000 morti per ferite sul campo di battaglia, su un totale di morti per ferite – compresi, cioè, i morti per ferite presso gli ospedali o in casa propria (69.000) o in prigionia (16.000) – di ben 402.000. I feriti furono 950.000, non comprendendo nel computo i feriti rimasti in prigionia, calcolati approssimativamente a circa 40.000, ed i feriti curati ai corpi: tale cifra, di 950.000, rappresenta il 16,57% del totale dei mobilitati. Gli invalidi, a seguito di ferite o di malattie, furono in complesso, 462.812, il che porta ad un totale di morti e di invalidi di ben 1.142.883 (Ferruccio Ferrajoli, Il servizio sanitario militare nella guerra 1915 – 1918, in Servizio Sanitario dell’Esercito, Giornale di Medicina Militare, Fasc. 6, novembre-dicembre, Roma 1968).
Recentemente la rivista Epidemiologia & Prevenzione ha cercato di fare il punto sulle perdite della Grande Guerra esponendo i dati raccolti da alcuni studiosi. Ma le cifre non parrebbero definitive, considerando l’elevato, ma impreciso, numero di soldati morti in prigionia, a cui andrebbe sommato quello dei civili italiani anch’essi detenuti in campi stranieri. Vi sono poi i morti per esecuzioni sommarie, decimazioni e a seguito di processi, il cui numero è stato sempre sottostimato. Ma dei soldati italiani fatti ammazzare dai propri superiori, spesso senza concreta ragione, non se ne parla affatto volentieri. Basti pensare alle sole esecuzioni sommarie condotte da Rodolfo Graziani nel corso della ritirata a seguito della disfatta di Caporetto. Su questo militare dalla carriera tutt’altro che specchiatissima si è, a mio avviso, scritto poco.
950.000-1.050.000 feriti, 463.000 dei quali hanno riportato menomazioni permanenti; 580-600.000 prigionieri; 2.500.000 di ammalati. A queste morti vanno aggiunte quelle di italiani caduti combattendo in eserciti stranieri: 24.366 italiani sudditi austriaci fino al 1918 caduti nelle file dell’esercito austro-ungarico (11.318 dei quali trentini); i circa 300 volontari garibaldini tra morti e dispersi caduti in Francia con la Legione straniera francese prima del 24 maggio 1915; un numero incerto, forse un centinaio, di cittadini italiani morti combattendo negli eserciti alleati, principalmente francese e statunitense, ma anche britannico, canadese e persino sudafricano. I militari condannati durante la guerra sono stati 170.064; 750 i fucilati dopo regolare processo, altri 350 circa a seguito di esecuzioni sommarie accertate; mentre un numero imprecisato, rimasto vittima di esecuzioni eseguite senza che se ne potessero registrare i nominativi, è rientrato nel conteggio delle perdite come morti in combattimento. Ai fucilati vanno aggiunti i condannati: morti in prigionia (stimabili in circa 400, considerando che sono stati 2.384 i prigionieri di guerra condannati); in carcere (nel settembre 1919 vi erano 60.000 rinchiusi nelle carceri militari, 40.000 dei quali scarcerati per effetto dell’amnistia); in latitanza…  Un dato sicuro è costituito dalle 655.705 pensioni di guerra versate ai familiari dei caduti al giugno 1926. Un numero che, tuttavia, non considera due tipologie di morti per i quali la pensione non è stata erogata: gli esclusi per indegnità, vale a dire i fucilati e i morti condannati per reati vari, e i morti privi di parenti aventi titolo a ricevere la pensione di reversibilità ((Franco Carnevale, La Grande Guerra degli italiani, in Epidemiologia & Prevenzione, Associazione Italiana di Epidemiologia, novembre-dicembre n. 6, Milano 2014).
Gli studi hanno riportato alla realtà ulteriori cause di decesso troppo spesso dimenticate: i prigionieri di guerra morti in campo di concentramento per malattie e denutrizione e i soldati morti entro il 1919 a causa delle ferite e delle malattie contratte in tempo di guerra. A costoro si sommano i civili morti e feriti per cause di guerra, nonché quelli deceduti a seguito di denutrizione e malattie conseguenti allo stato di guerra. In sintesi ecco un conteggio indicativo, ma comunque approssimativo, delle perdite costate al Popolo Italiano:
Soldati morti  780.000 di cui:
406.000 per cause belliche,
274.000 per malattia,
100.000 nei campi di prigionia stranieri.
Non si conosce il numero esatto dei soldati fucilati: nel corso delle azioni, per processi anche sommari a seguito di diserzioni, ferite autoinflitte, disobbedienza, disfattismo, etc. Il loro numero è imprecisato e assolutamente sottostimato, ma nelle fonti ufficiali è fissato a circa un migliaio, mentre in quelle non ufficiali è stimato in alcune decine di migliaia.
Soldati feriti     950.000 – 1.050.000
Soldati ammalati  2.500.000 
Soldati invalidi  462.800 – 463.000 a causa di ferite o di malattie, secondo i dati militari.
Corrado Tumiati, medico e psichiatra nella Grande Guerra, denuncia ben 1.300.000 militari e civili «minati, irrimediabilmente devastati nel fisico e nella mente».
Civili morti  500.000 – 1.000.000
Il computo dei civili morti per cause belliche e per cause determinate dalla guerra, come malnutrizione e malattie, sono ad oggi tutt’altro che definite. Si ricordi che negli ultimi mesi di guerra civili e militari furono colpiti dall’epidemia “Spagnola”, la quale imperversò e falcidiò la popolazione non solo italiana fino al 1919. Ugualmente, il numero dei feriti e degli ammalati non è stato attendibilmente e univocamente stabilito.
Emigrati
Numerosi italiani emigrarono all’estero per evitare l’arruolamento, ma il loro numero, anche in questo frangente, non è mai stato computato con esattezza.
Calcolo totale In via del tutto approssimativa si può calcolare che la Prima Guerra Mondiale costò alla popolazione italiana, tra civili e militari:
1.280.000 – 1.780.000 morti,
462.800 – 1.300.000 invalidi permanenti.

GIOIA E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Quando nel 1914 scoppia la Prima Guerra Mondiale gli intellettuali gioiesi si esprimono contro l’intervento dell’Italia nel conflitto in atto. In quell’anno Giovanni Carano Donvito sulle pagine del settimanale “L’Unione”, che a Gioia era diretto da Nino Sciscio, esprimeva la sua preoccupazione per i conflitti, causati dalla follia di pochi uomini, conflitti che alla fine avrebbero fatto sentire nefaste conseguenze per l’intera umanità. Anche la componente socialista gioiese si dichiarava contraria alla guerra.

La gestione amministrativa  del Comune di Gioia del Colle durante il periodo della guerra (1915-1918) fu tenuta da Commissari Prefettizi.

Nell’aprile del 1915 a Gioia viene costituita una sezione dell’Associazione Nazionalista, che ha per unico scopo il bene dell’Italia, tener vivo nell’animo dei giovani il sentimento patriottico mediante conferenze istruttive e preparare la gioventù al rispetto delle Istituzioni che ci reggono. Tale Associazione nel 1916 prese la denominazione “Gruppo Patriottico Giosuè Carducci”. Viene effettuato il collaudo della Cassa armonica in Piazza Plebiscito.

Nel 1915 Gioia è sede di un modesto campo d’aviazione, adibito a scuola aviatori.

Con l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio del 1915 in Gioia fu costituita una sezione del Comitato di Assistenza Civile a favore delle famiglie dei combattenti e degli orfani dei caduti.

Durante i primi mesi di guerra   nel nostro territorio si verificarono piogge abbondanti che distrussero il raccolto di grano. Anche a Gioia viene istituito il Patronato Scolastico, per la protezione dell’infanzia.

Nel 1916 il comandante del presidio e quello del campo d’aviazione segnalavano una recrudescenza di malattie veneree tra i soldati per cui si invitava  medici e levatrici che avevano prestato la propria opera a donne infette da tali malattie  a darne notizia alle autorità di Pubblica Sicurezza.

Il 2 settembre 1916 durante una cerimonia patriottica tenutasi nel Teatro Comunale viene consegnata una medaglia al valor militare al soldato Covella Vito, in quell’occasione fu commemorato Cesare Battisti, che era stato impiccato, e in suo ricordo fu scoperta una lapide in Piazza Plebiscito.

Ad ottobre del 1916 il tenente di artiglieria Carlo Rosati moriva in battaglia. La lapide sulla sua tomba nel cimitero di Gioia riporta: Carlo di Marino Rosati tenente di artiglieria soldato fra i soldati tre volte ferito eroe leggendario tornò alla battaglia. Il piombo austriaco l’uccise. Giovani d’Italia… imitate. 1891-1916

Il 1916, nonostante l’entrata in guerra, una grande manifestazione di popolo in festa salutò il primo zampillo di acqua da una fontanina dell’Acquedotto Pugliese posta in Piazza Plebiscito. Sempre nel 1916 per ovviare alla mancanza di manodopera maschile, a causa delle partenze in guerra, il Sottoprefetto di Altamura autorizza l’impiego di donne e fanciulli nella industria dei bozzoli, allora fiorente in Gioia.

L’Edificio elementare viene requisito per essere utilizzato come Ospedale Militare di riserva.

Nel 1917 è da segnalare il volo di D’Annunzio su Cattaro, il 4 ottobre, con partenza dal campo di aviazione di Gioia del Colle e relativo ritorno.

Gli effetti della guerra si fanno sentire anche in quest’anno. Vengono compilate 7.000 tessere di consumo per famiglie, per acquisto di pane, farina e zucchero, con razionamento giornaliero di 200 grammi di farina e 250 grammi di pane. Vengono impiantati spacci comunali di pane e pasta.

Il Comune durante il 1917, per la destinazione in Gioia del campo scuola aviatori, riatta un tratto della via dei Riformati (l’attuale Corso R. Canudo), dalla quale alcuni militari  accedevano agli hangar.

La Banda musicale che continuava a svolgere servizio in occasione di festività, suona anche il 3 novembre 1918 per la festa di Trento e Trieste e il 4 novembre per celebrare la vittoria dell’Italia riportata in guerra.

Nel 1918 viene terminata la costruzione della chiesa di Santa Lucia, che si era protratta per circa 20 anni.

Il 1918 segna la fine della guerra e quest’anno passa alla storia per la diffusione  dell’epidemia influenzale indicata come  “la spagnola”, che provoca circa 1.000 morti a Gioia.

Nel nostro Comune, a causa del conflitto mondiale, registriamo un alto numero di morti, i nomi di molti dei quali si possono leggere scolpiti sulle lastre marmoree apposte sull Monumento dei Caduti, sito in Piazza Cesare Battisti.

Nella Contrada di Montursi una lapide affissa su un immobile comunale riporta: Caduti della contrada Montursi nella Grande Guerra (1915-18) Capurso Giovanni, De Palma Filippo, Milano Filippo, Nico Vito Antonio, Petrera Filippo, Rizzi Filippo, Surico Eustachio. La popolazione raccolta intorno alla Scuola dell’Ente Pugliese di coltura ne rievoca il fulgido esempio.

Sempre nella stessa contrada, a qualche metro da quella lapide, su un cippo, sulla cui sommità è posizionato il busto del soldato che originariamente era allocato presso il Monumento ai Caduti in Piazza Cesare Battisti a Gioia, dopo aver elencato i succitati Caduti della Grande guerra è riportata la seguente frase: A perenne ricordo la cittadinanza di Montursi pose.

Il 4 novembre 1919, primo anniversario della vittoria, la banda presta servizio per la festa nazionale e per lo scoprimento della lapide del defunto tenente De Felice.nella scuola elementare Mazzini, che ripota queste parole: Al tenente Filippo De Felice per le italiche rivendicazioni, caduto giovanissimo sull’Isonzo nel giugno 1916, i maestri, che qui l’ebbero collega, e i concittadini, orgogliosamente.

I danni causati dalla guerra spinsero Padre Giovanni Semeria a istituire l’O.N.M.I., Opera Nazionale Meridione d’Italia, con lo scopo di portare aiuto agli orfani di guerra del Mezzogiorno, i quali, per la povertà dell’ambiente in cui vivevano, avevano minori possibilità di sostegno di quelli che abitavano in  altre regioni italiane del nord, più fortunate. L’Opera, infatti, oltre ad offrire assistenza agli orfani mirava alla promozione civile, morale e religiosa delle regioni meridionali.per dare sostegno alle famiglie degli orfani di guerra. Nei documenti viene riportato come anno di fondazione il 1921 e come nome Istituto ” Padre G. Semeria ” Centro Giovanile di Formazione e di Ricreazione, Doposcuola, diretto dalla Famiglia dei Discepoli.

Gioia è tra le prime sedi in cui l’O.N.M.I. opera, come riferisce lo stesso Padre Semeria: Per la Puglia dall’ottobre 1919 abbiamo inaugurato il primo Orfanotrofio maschile a Gioia del Colle. Dopo un anno di vita iniziale in un locale provvisorio, con una ventina di fanciulli, abbiamo nel settembre 1920 posto la prima pietra di un nuovo edifizio capace di 70 alunni con un vasto terreno adiacente da servire per Scuola Agraria Modello. I confratelli avevano accanto ad una bella Chiesetta nuova, una modestissima residenza.   

A Gioia Padre Semeria e i padri Bernabiti chiedono un concorso del Comune  per l’erigendo Orfanotrofio dei figli dei militari caduti  in guerra, un orfanotrofio maschile che verrà aperto  il primo ottobre nei locali dei Padri Bernabiti. Accanto all’ Orfanotrofio si impianta una Colonia Agricola sempre per Orfani di Guerra. In essa i giovani orfani apprendono un mestiere.

Nel 1924  Padre Semeria dice: A Gioia del Colle i nostri progetti furono pronti, come ho ricordato, e l’esecuzione loro rapida. I miei confratelli, i P.P. Barnabiti, con a capo il Superiore locale R. P. Salvato, accolsero l’idea d’un Orfanotrofio Agricolo. Per fortuna la nostra casetta sorge al confine del paese, dando sulla campagna, la fertile campagna direttamente. Per fortuna lì uno di quei fratelli  conversi che valgono, in speciali circostanze, quanto un Padre da berretta, fratello Michele Lomurno, un pugliese innamorato della sua terra e del suo Dio, iniziatosi praticamente nei dintorni di Roma ai segreti dell’agricoltura razionale moderna senza perdere l’uso della zappa e della vanga…ci aiutò… I primi Orfanelli li ricevettero i Padri, temporaneamente a casa loro, e frattanto sorgeva 

solido, pulito, ampio, se non maestoso, il nuovo locale… oggimai stretto ai cresciuti. Gli orfanelli sono 85 e saliranno a 100… L’azienda agricola che già sotto P. Salviato aveva dato visibili frutti è ora quasi completa, colla sua stalla dove non manca il toro, ma con il porcile modello dove si potrà fare in grande l’allevamento dei suini inglesi, con i pollai portatili, con l’apiario in costruzione, col caseificio che produce le famose mozzarelle mentre in casa i nostri ragazzi fanno di tutto, pane compreso. Un bellissimo album fotografico dirà, speriamo, alla prossima esposizione di Roma tutta questa bella attività della colonia di Gioia nel triennio della sua vita. Ma non potrà dire quale servizio ci abbiano reso e ci stiano rendendo giorno per giorno le modeste Suore del Sacro Costato preposte alla cucina, al guardaroba, al vestiario. Sono le mamme silenziosamente laboriose dei nostri cari orfanelli…. L’orfanotrofio agricolo non attira punto o certo, non attira quanto dovrebbe. ” Del nostro figlio è vero che ne volete fare uno zappatore?” ci chiedevano e chiedono tra accorate e ironiche molte mamme di orfani a Gioia del Colle. Zappatore, ecco la definizione corrente del contadino… altro che agricoltore! Adagio adagio di fronte allo svilupparsi dell’azienda agricola nei vari suoi rami, specie zootecnici, il pregiudizio cede.

Nel 1921 l’O.N.M.I. diviene Ente Morale.

L’AEROPORTO DI GIOIA DEL COLLE 

Il primo Campo di aviazione viene realizzato nel 1915 su terreni il cui esproprio  era stato effettuato nel 1914., All’inizio sono costruiti solo alcuni hangars, sotto i quali si riparavano gli aerei. A quel tempo il campo era di modeste proporzioni. E’ inaugurato una prima volta nel 1915 e  successivamente nel 1928.

L’11 settembre 1916 il Regio Commissario Prefettizio di Gioia, dott. Giovanni Garzaroli,  delibera il pagamento del compenso per una copia della pianta topografica  del Piano Gaudella, zona destinata ad uso del campo d’aviazione.

Il Regio Commissario di Gioia, cav. Francesco Palermo,  poiché per la destinazione in Gioia del campo scuola aviatori aveva provveduto a far riattare un tratto della via dei Riformati, l’attuale via Ricciotto Canudo, dalla quale parte dei militari accedevano agli hangars, il 14-3-1917 delibera il pagamento dei lavori effettuati.

Nel 1917 il campo di Gioia del Colle  è sede di un ” Battaglione  Aviatori “, una piccola schiera di pionieri del volo, dipendente dal Comando di Torino e durante la prima guerra mondiale viene adibito a Scuola aviatori, alle dipendenze del suddetto Battaglione

Tra gli altri avvenimenti, al nome del nostro Paese, e in particolare dell’aeroporto, è legata quella leggendaria impresa di G. D’Annunzio: l’incursione aerea notturna  e il bombardamento  della base navale di Cattaro durante la prima guerra mondiale, da lui considerata la sua impresa bellica più audace, che è stata considerata la più straordinaria che sia mai stata tentata con velivoli destinati a voli su terra. Egli cominciò a prepararla con due mesi di anticipo e stentò per ottenere il permesso dai Superiori, perché che nessun velivolo avrebbe potuto far rientro a terra, a causa della difficoltà della rotta e della lontananza dell’obiettivo da raggiungere.

La leggendaria incursione, infatti, avviene nella notte tra il 4 e il 5 ottobre ( la notte di San Francesco di Assisi ) del 1917 e porta alla distruzione della flotta navale nemica nelle Bocche di Cattaro. La sera della partenza una folla di cittadini gioiesi, raccolti dalle ore 13 in poi lungo i bordi della statale che fiancheggia l’aeroporto, assiste al decollo  dei 15 biplani. Uno di questi, per problemi ai motori fa subito rientro alla base. Tutti gi altri aerei raggiungono l’obiettivo, colpiscono sommergibili e siluranti ancorati  nelle Bocche di Cattaro, riuscendo a sfuggire  all’intensa contraerea nemica.

L’impresa fu effettuata esattamente tredici mesi prima della conclusione del conflitto mondiale.

Nel festeggiare la brillante conclusione dell’audacissima impresa, durante un brindisi D’Annunzio propose di cambiare il nome di Gioia del Colle in Gioia della Vittoria.

Per ricordare quell’eroico volo l’Amministrazione Comunale di Gioia del Colle ha intitolato una strada cittadina al valoroso soldato-poeta ed un’altra arteria cittadina al 4 ottobre 1917, data in cui il poeta e i suoi compagni di squadriglia hanno dato il via a quell’impresa, partendo dal nostro Campo d’aviazione.

Nel 1908 il castello di Gioia, che era stato acquistato dal marchese O. De Luca Resta, fu da lui messo a completa disposizione del Ministero della Guerra e della Maria Militare e fu occupato da reparti militari. La torre de’ Rossi venne adibita dalla Marina a posto di vedetta per il vicino campo d’aviazione; e ciò fino al 1919.

La festività del 4 novembre è stata istituita nel 1919 ed è durata fino al 1976: è l’unica festa nazionale che sia stata celebrata dall’Italia prima, durante e dopo il fascismo. Inizialmente era denominata Giornata delle Forze Armate, quelle appunto che permisero la vittoria al termine del primo conflitto mondiale.

Dal 1977, dopo una riforma del calendario volta ad aumentare i giorni lavorativi, si cominciò a festeggiare la giornata dell’unità nazionale e delle forze armate nella prima domenica di novembre. Negli anni Ottanta e Novanta l’importanza della festa diminuì progressivamente, rispetto agli anni precedenti Sessanta e Settanta in cui era oggetto di discussioni, polemiche e lotte politiche.

Oggi, a distanza di un secolo dalla fine del conflitto mondiale, per noi italiani  è indispensabile ridimensionare la portata dell’evento, giudicando con spirito critico gli avvenimenti che hanno visto coinvolti milioni di nostri connazionali su svariati campi di battaglia. In questo senso bhanno operato diversi studiosi. Tra questi cito un lavoro davvero interessante e dissacrante.

Tre studiosi, due giornalisti (Valerio Gigante e Luca Kocci) e uno storico (Sergio Tanzarella), sono autori di un bel volume, critico, dal titolo La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla  I guerra mondiale,  che ci danno una nuova chiave di lettura degli avvenimenti di un secolo fa.

Riporto l’intervista che Pierluigi Mele ha realizzato ai tre autori il 23-5-2015.

Il 24 maggio, nel nostro Paese, si fa “memoria” dei cento anni dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo grande conflitto mondiale. Tutti i protagonisti sono morti: vittime e carnefici. Ma non è morta la retorica “nazionalista” che mistifica, ancora oggi, la verità. L’ufficialità afferma che la “grande guerra è stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro Paese, perché è nell’affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono “fatti gli italiani” (così l’allora sottosegretario Paolo Peluffo)”. Una tesi vuota e stantia. Al quale voi, nel  vostro libro, replicate che questa è la “grande menzogna”. Perché?

Valerio Gigante: Si tratta di contrapporre ad un’ideologia e ad una retorica funzionale a trasmettere l’idea di una storia nazionale senza cesure e contraddizioni, vissuta nell’ottica dell’unità di intenti e della ricerca di una fantomatica unità, o “bene comune” (che il nazionalismo e l’idea di patria spesso suggeriscono), interclassista e irredentista, un approccio critico, che dia consapevolezza a chi non ha vissuto quegli eventi, ma ne è figlio sia per storia familiare che collettiva, che quella guerra ha drammaticamente segnato l’immaginario, la cultura, la politica e la storia del nostro Paese. E che ha inciso la carne stessa delle centinaia di migliaia di vittime, mutilati, feriti, prigionieri (terribile fu la sorte dei prigionieri italiani, che non ebbero dal nostro governo alcun sostegno materiale, perché considerati vili o disertori). La guerra ha colpito chi l’ha combattuta allo stesso modo delle famiglie a cui queste persone sono state sottratte per essere restituite cadaveri, o non essere restituite affatto; o restituite a volte con devastazioni fisiche e psicologiche inimmaginabili. Perché nella I guerra mondiale tutti gli strumenti di distruzione disponibili (gas, mitragliatori, aerei, artiglieria, lanciafiamme, proiettili dum-dum, sommergibili) furono utilizzati su larga scala e senza limiti.

Veniamo alla guerra. Ancora oggi non sappiamo, se non in modo  approssimativo, i numeri dei morti, dei feriti, dei civili deceduti (direttamente e indirettamente a causa della guerra), dei prigionieri abbandonati dall’Italia, dei soldati impazziti al fronte. E’ possibile dare qualche cifra?

Luca Kocci: In effetti i numeri non si conoscono con precisione, e già questo dà il segno della brutalità e della violenza della guerra. Secondo gli studi più attendibili, durante i 5 anni di guerra, su un totale di 74 milioni di soldati mobilitati dai Paesi belligeranti, vi furono complessivamente 10 milioni di morti (e dispersi), 21 milioni di feriti – fra cui 8 milioni di mutilati ed invalidi, quindi feriti permanenti – e 8 milioni di prigionieri su tutti i fronti. Per quanto riguarda l’Italia – e anche qui i numeri sono incerti, molto probabilmente sottostimati rispetto alla realtà – si contano oltre 650 mila morti, di cui 400 mila al fronte, 100mila in prigionia e i restanti a causa di malattie contratte durante la guerra. Inoltre in 500 mila tornarono dal fronte mutilati, invalidi o gravemente feriti e oltre 40mila con gravissime patologie psichiche dopo anni di trincea.

L’entrata in guerra fu anche un “grande affare” per i gruppi industriali italiani che ha alimentato la grande truffa delle spese di guerra. Episodio, questo, totalmente occultato. . Un ignobile arricchimento fatto sulla pelle delle migliaia di italiani mandati a morire. Come si è sviluppata questa truffa? Chi sono stati i responsabili rimasti impuniti?

Sergio Tanzarella: Si trattò allora della prova generale della corruzione sistemica che avrebbe caratterizzato il nostro Stato. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra fortemente voluta da Giolitti raccolse, seppure a fatica, una documentazione imponente. Non ci fu un settore delle commesse di guerra che non fosse stato coinvolto dalla corruzione. Fatture pagate per materiali mai consegnati o solo in parte consegnati, fatture pagate due volte, forniture di materiali di pessima qualità e, finita la guerra, riacquisto a bassissimo costo di quanto non era stato nemmeno consegnato. La guerra costò in alcuni settori anche il 400% in più del dovuto, si può ben comprendere con che danno irreparabile per la casse dello Stato. Un debito enorme che l’Italia si sarebbe trascinata per decenni fin dentro la vita repubblicana. La cattiva qualità delle forniture provocò disagi gravissimi dagli armamenti fino alle stoffe delle divise che avide d’acqua ghiacciarono negli inverni di trincea o alle scarpe che duravano in media da 4 giorni a 2 mesi. La guerra si trasformò in una colossale truffa per lo Stato. Anche l’acquisto di quadrupedi negli Stati Uniti divenne occasione di corruzione, gli ufficiali addetti comprarono a caro prezzo migliaia di cavalli e di muli d età veneranda, pronti a morire ancora nel viaggio di consegna. La commissione fu di fatto neutralizzata da Mussolini, intanto arrivato al potere, e i risultati dei suoi lavori sconosciuti e inapplicati. L’industria italiana che tanto aveva sostenuto gli interventisti trasse profitti illeciti ed enormi. Fra le industri più note l’Ansaldo che fatturò due volte e si fece pagare due volte una intera fornitura di cannoni o l’Ilva che aveva investito centinaia di milioni per finanziare la stampa nazionale e locale perché creasse nell’opinione pubblica un clima di complessivo consenso alla guerra.

La guerra è stata “preparata” anche dall’opinione pubblica di allora. Una enorme macchina propagandistica al servizio della politica interventista. Poche sono state le voci critiche. Chi si è distinto in questo è stato è stato il Pontefice Benedetto XV. Un profeta inascoltato…E’ così?

Valerio Gigante: Tra la fine del 1914 e il maggio del 1915, in pochi mesi l’Italia passò dal più convinto neutralismo al più acceso nazionalismo. Trascinando gran parte dell’opinione pubblica su posizioni belligeranti. Un risultato del genere non può che essere attuato attraverso una capillare organizzazione del consenso, una delle prime attuate in maniera così sistematica e capillare in Italia, che coinvolgeva scrittori e testate giornalistiche, riviste letterarie e singoli intellettuali. Una circostanza che dovrebbe far riflettere sull’efficacia della propaganda nelle società di massa. All’interno di questo panorama culturale, intellettuale e anche religioso di sostanziale esaltazione, o almeno di acritica accettazione della guerra, emerge la figura di Benedetto XV

Sergio Tanzarella: …il quale ebbe il coraggio di esprimere da subito una condanna totale e ferma nei confronti della guerra di cui intuì le straordinarie capacità mortifere. Le righe da lui dedicate alla guerra nella sua prima enciclica del 1° novembre 1915 Ad beatissimi sono di una chiarezza esemplare. Scontentò tutti con questa posizione e ancor più con le proposte di pace o almeno di armistizio che più volte concretamente avanzò. Nessuno le prese in considerazione e per questa sua posizione fu condannato alla cancellazione nella storia del ’900 tanto che possiamo definirlo il papa sconosciuto. Ma non si limitò soltanto alla condanna e alla possibilità di tregua, armistizio e pace, promosse forme di assistenza ai prigionieri di guerra e di collegamento e informazione tra prigionieri e famiglie. Un’opera silenziosa e preziosa soprattutto quando l’Italia decise di abbandonare i propri militari prigionieri considerandoli disertori.

Nel vostro libro analizzate anche la figura molto controversa di Padre Agostino Gemelli. Un frate totalmente asservito alla propaganda guerrafondaia. Qual era il suo ruolo?

Sergio Tanzarella: Gemelli era capitano medico assegnato al Comando Supremo. In quel ruolo fu uno dei più ascoltati consulenti di Cadorna. Come psicologo si propose di trovare i modi per abbassare ogni forma di resistenza tra i soldati rispetto alla morte che li attendeva negli inutili assalti. Alla stessa morte Gemelli attribuiva una valenza religiosa in grado di convincere i fanti che si trattava della condivisione con la missione salvifica del Cristo. Gli articoli di Gemelli di quegli anni e il suo libro Il nostro soldato sono un’abominevole raccolta di pensieri raccapriccianti dove la fede viene posta a servizio di una causa di morte. Gemelli scriveva che la conversione del soldato si realizzava sul letto dell’ospedale prima di morire, ma era cominciata al fronte e ad essa aveva dato un contributo decisivo una singolare forza di catechesi, la catechesi del cannone. Pertanto la guerra era compresa come provvidenziale occasione di rinascita cristiana. Gemelli fu molto abile a preparare un intruglio di edificazione-rassegnazione di fronte alla catastrofe della guerra offrendo ad essa una mistica consolatrice come quando scrive: «Per noi che rimaniamo, per le spose, per le madri, per i figli, per le sorelle, per gli amici, per i compagni d’armi, per quanti siamo in lutto in queste giornate di prova la morte dei nostri giovani è ragione di conforto. Essi hanno accettato di morire, perché hanno sentito la bellezza cristiana del sacrificio per la patria. Essi hanno fatto di più: hanno fatto risuonare nella morte questa dolce voce della speranza cristiana che consola, che rende forte, che sprona al sacrificio, che ci fa degni insomma dell’ora della prova che oggi viviamo»

Altra figura negativa è stata quella del generale Cadorna (insieme al Comando supremo). In cosa si è “distinto”?

Sergio Tanzarella: Dal punto di vista strategico per la totale incompetenza a comprendere le caratteristiche della nuova guerra dove gli assalti ripetuti alle trincee nemiche erano destinati al totale fallimento, le nuove armi permettevano di difendere le trincee dalle ondate di fanti che egli mandava incurante a morire. Una scelta folle che mostrò progressivamente il totale disprezzo che aveva per la vita umana. Ma l’incapacità strategica apparve sin da subito quando, dichiarata la guerra da parte italiana, Cadorna temporeggiò tanto da lasciare agli austriaci tutto il tempo di rinforzare le fortificazione fino a renderle inespugnabili. A questo si accompagnò il ben più grave sistema repressivo per costringere con ogni mezzo i soldati ad andare a morire. Qualsiasi dubbio sulla guerra e ogni forma di protesta fu repressa nel sangue con processi farsa, con sentenze che ebbero immediata applicazione, con tribunali speciali fino alle esecuzioni sul posto (lasciando ai comandanti totale arbitrio di vita e di morte nei confronti dei sottoposti). Altro sistema largamente diffuso furono le decimazioni tra i soldati fortemente volute da Cadorna per instaurare un regime di terrore nella truppa. Cadorna era un cattolico devoto e assunse questo ruolo di spietato carnefice come personale missione a servizio della guerra. L’obbedienza cieca divenne elemento della sua mistica di guerra nella quale il campo di battaglia e di morte divenne il luogo del pericolo e dell’onore.

Altro inganno fu la propaganda costruita sulla Vittoria. Perché?

Luca Kocci: Appena conclusa la guerra, prese il via una sorta di “frenesia commemorativa” fatta di monumenti ai caduti, grandi sacrari militari, fino alla trasformazione del Vittoriano in monumento al Milite Ignoto. In un primo momento la necessità dell’elaborazione del lutto, anche collettiva, da parte dei famigliari e degli amici delle vittime ha avuto un ruolo importante, e lapidi e monumenti ai caduti hanno svolto anche questa funzione. Ma subito dopo, e in particolare dopo la presa del potere da parte del fascismo, è stata attuata una vera e propria “politica della memoria” per costruire una sorta di religione della patria fondata sul “sacrificio eroico” dei soldati. Infatti i nuovi monumenti ai caduti spesso abbandonano le connotazioni troppo veriste per assumere quelle dei guerrieri nudi della classicità, rafforzando così i tratti eroici e trasformando il soldato-contadino in fante-guerriero, attorniato da fasci littori, scudi e daghe. A partire dal 1928, poi, il regime vieta la costruzione di monumenti di iniziativa locale e attribuisce al governo centrale la progettazione e la costruzione di grandi monumenti e sacrari nazionali. Il nuovo sacrario militare di Redipuglia – che sostituisce il precedente Cimitero degli invitti che a Mussolini non piaceva proprio perché poco eroico – è l’emblema di questo uso politico della morte e della memoria: 22 giganteschi gradoni di marmo bianco, che contengono le spoglie di oltre 100mila soldati, su ciascuno dei quali è scolpita ossessivamente la parola «Presente», come nel rito dell’appello durante i funerali o le commemorazioni dei “martiri fascisti”, a cui quindi vengono equiparati i caduti della I guerra mondiale.

Ultima domanda: Quel conflitto è stato un orrore, tutta la tecnologia di allora asservita alla macchina infernale della guerra, eppure viene “celebrato”. A cento anni di distanza lo spirito critico fatica ad emergere. Come costruire una nuova memoria storica?

Valerio Gigante: Demistificare la narrazione apologetica e celebrativa della I guerra mondiale significa porre le basi per creare una più solida coscienza critica non solo del perché fu orrore quella guerra, ma di come lo sono state anche altre guerre. È per questa ragione che oggi l’ideologia dominante  celebra ancora il falso “mito” della I guerra mondiale. Per rendere le masse più disponibili ad accettare come l’orizzonte della guerra esista ancora. Che esso faccia in qualche modo parte del nostro Dna. Che non è bella, ma a volte è necessaria. Va invece suscitato – ed il nostro libro si pone appunto questo obiettivo – un orrore lucido e razionale nei confronti di quella guerra come di tutte le altre, un orrore generatore di pensiero e non unicamente emotivo – nei confronti della “grande menzogna” che continua anche oggi. Certo, la memoria è corta. E la storia non ha quasi mai insegnato nulla a chi l’ha studiata distrattamente, accontentandosi di attingere al senso comune ed alle fonti di “sistema”. Ma l’esercizio critico è una delle (poche) armi che ancora abbiamo a disposizione se non per trasformare la realtà almeno per comprenderla, che è poi la pre-condizione per tentare di cambiarla. –

Al di là di queste affermazioni e considerazioni penso che sia maturo  il momento, soprattutto per noi italiani,di riconsiderare gli avvenimenti della Prima guerra mondiale, alla luce di una serena valutazione dettata e dalla lontananza degli stessi e dalla decantazione dell’esasperato nazionalismo e ‘amor di patria’ che generarono la morte di milioni di giovani innocenti, di feriti, di dispersi, oltre a incalcolabili danni materiali. E ciò anche per consegnare alle giovani generazione un messaggio di operosità e un monito a non incorrere negli errori del passato, ma  ad adoperarsi per il superamento degli odi razziali per instaurare nella pace  una collaborazione e un affratellamento tesi a  conseguire il bene comune.

La Prima guerra mondiale è stata l’apice della barbarie umana e continuare ad osannarla, come ogni anno si ripete da numerose parti, come unica chance, da parte del popolo italiano, per ottenere ingrandimenti territoriali o recupero di terre di cui un tempo gli italiani erano detentori, significherebbe educare i giovani ad un inutile sacrificio in nome della ‘Patria’ e ad alimentare l’odio per gli altri popoli. Ecco perché bandendo ogni forma di trionfalismo e rievocazione nel ricordo di una ‘vittoria mutilata’ sarebbe il caso di interrogarsi sulla inutilità  e insipienza di una tale scelta e sull’errata educazione che all’amor di patria è stata inculcata in passato.

 

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22 Ottobre 2018

  • Scuola di Politica

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